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Il Disagio Scolastico: Definizione, Cause e Strategie per Affrontarlo

La letteratura scientifica, sia di tipo pedagogico che psicologico, dimostra come il concetto ricorrente di “disagio scolastico” sia estremamente complesso e ricco di sfumature: termine contenitore, esso si riferisce ad una vasta gamma di problematiche, spesso diverse tra loro e non sovrapponibili. Dal momento che il termine può generare ambiguità interpretative, è necessario ricercarne una definizione precisa, per non confonderlo con altri fenomeni ad esso strettamente correlati, quali quelli del “disadattamento” e della “devianza”. Questi tre concetti “disagio”, “disadattamento” e “devianza” spesso vengono impiegati come sinonimi, tuttavia dovrebbero essere interpretati ed utilizzati secondo una successione di crescente problematicità, da un più o meno accentuato malessere dell’individuo, ad un dichiarato conflitto sociale. Come sottolinea Luigi Regoliosi, “disagio, disadattamento e devianza non sono concetti tra loro omogenei. Infatti il disagio, esplorato soprattutto dalla pedagogia e dalla psicologia, è una condizione legata a percezioni soggettive di malessere (il disagio si “sente”, ma non necessariamente si “vede”); il disadattamento, studiato anche dalla sociologia, si esprime oggettivamente come relazione disturbata con uno specifico ambiente […], mentre la devianza, […], si manifesta come un comportamento che infrange visibilmente una norma (giuridica o culturale) e determina lo stigma sociale”.             La nozione di disagio appare come un concetto estremamente ampio, a cui si associa una vasta gamma di comportamenti di gravità variabile. Stabilire quale sia il confine tra normalità e patologia nei vissuti di disagio è per gli insegnanti un compito estremamente difficile, soprattutto perché certe situazioni possono aggravare l’iniziale vissuto di disagio facendogli oltrepassare i rassicuranti confini della “normalità”. Spesso per gli studenti il disagio equivale ad una spirale progressiva, che va da un malessere psicologico nei confronti della propria esperienza scolastica, ad una difficoltà evidente nel realizzare i propri obiettivi formativi, alla bocciatura, fino all’abbandono ed alla dispersione. Come sottolinea Maria Luisa Pombeni, “la letteratura scientifica ha dimostrato che il disagio scolastico non è immediatamente sinonimo di insuccesso scolastico, anche se in alcuni casi si può sviluppare una stretta relazione fra questi due fenomeni. Malessere psicologico nei confronti della propria esperienza formativa, riuscita scolastica problematica, bocciatura, abbandono, rappresentano spesso diversi anelli concentrici di una spirale progressiva”.             Volendo definire il disagio, consapevoli della sua ampia portata semantica, possiamo affermare, seguendo Petruccelli, che “il disagio scolastico è uno stato emotivo non correlato significativamente a disturbi di tipo psicopatologico, linguistico o cognitivo, ma che si manifesta attraverso una serie di comportamenti di rifiuto delle attività scolastiche, tali da impedire l’utilizzo delle proprie capacità cognitive, affettive relazionali”. È inoltre importante sottolineare che esso si manifesta come un problema riconducibile ad una pluralità di cause (Liverta Sempio, Confalonieri, Scarlatti, 1999). La maggiore o minore capacità di fronteggiare gli impegni e di affrontare le difficoltà scolastiche non può essere spiegata attraverso cause individuali, facendo cioè ricadere la responsabilità solo sul soggetto coinvolto, ma è necessario ricordare che gli alunni affrontano il proprio percorso formativo all’interno di un contesto scolastico e di un ambiente che sono socio-culturalmente determinati. Parlare delle cause del disagio scolastico significa quindi fare riferimento a più fattori che si legano tra loro e che vanno considerati sia nella loro autonomia che nella loro interdipendenza.             Di fronte alle plurali fenomenologie del disagio, l’insegnante può cercare di intervenire sui fattori che si presentano come predittivi e che possono causare una escalation ed una possibile trasformazione in fenomeni di devianza. Il disagio scolastico può manifestarsi con varie modalità tra cui comportamenti di disturbo, irrequietezza, difficoltà di concentrazione e di apprendimento, scarsa motivazione, abbandono, dispersione scolastica, accumulo progressivo del deficit. Le situazioni a rischio devono perciò essere tenute sotto controllo e la scuola e gli insegnanti hanno un ruolo rilevante nell’organizzazione di strategie precauzionali, tuttavia questo non può essere compito unico della scuola: la responsabilità formativa deve infatti essere condivisa anche dalla famiglia, a cui spetta il primario compito della socializzazione e dalle istituzioni e servizi territoriali che dovrebbero essere sensibili alla costruzione di una società educante.             Una delle cause del disagio scolastico può essere rilevata nel disagio etnico vissuto dai soggetti di origine straniera presenti nella scuola italiana. Si tratta di alunni che hanno alle spalle storie di migrazione che rendono più complesso il rapporto con le istituzioni scolastiche. Ci ricorda Selleri (2005) che l’American Psychiatric Association (2002) raccomanda di ricostruire la storia psicosociale della persona immigrata attraverso il racconto del travaglio di un esodo piuttosto che di un viaggio di migrazione; questo significa che l’obiettivo è quello di dare spazio alla vita trascorsa nel paese d’origine, punto di riferimento per comprendere, accettare o rifiutare le condizioni di vita nel nuovo paese (Selleri, 2005). Spesso i singoli componenti della famiglia emigrano in momenti diversi, spesso i bambini arrivano soli e per primi, o raggiungono altri membri a seguito di un ricongiungimento familiare: comunque accada questo arrivo, partendo si perdono la famiglia, i parenti, gli amici, le proprietà, le risorse finanziarie, gli affari, la carriera, il supporto dell’ambiente familiare e della comunità. Detto ciò è facile capire come i bambini siano più in difficoltà dei genitori, anche perché raramente hanno partecipato attivamente alla decisione di emigrare e spesso non ne comprendono neppure le motivazioni, vivendo l’esperienza migratoria soprattutto attraverso i discorsi dei familiari. Tuttavia anche il bambino nato in Italia vive, nelle rappresentazioni, nelle idee e nelle parole dei genitori, una situazione di separazione dalle origini e di non appartenenza rispetto al paese ospitante.             L’inserimento scolastico rappresenta per i minori un momento di forte tensione; nel nuovo contesto ciò che l’alunno aveva imparato nel paese di origine non viene riconosciuto, le sue conoscenze sono svalutate ed egli si percepisce incompetente, incompreso, incapace di confrontarsi con una lingua e con linguaggi costruiti sulla condivisione di codici culturali per lui inaccessibili. Egli deve poter ricominciare da capo, deve saperlo fare, familiarizzando con immagini, regole e comportamenti nuovi, nella speranza che l’esperienza personale e il progressivo apprendimento della lingua lo aiutino a partecipare più attivamente alla vita del nuovo contesto in cui si trova inserito. Perciò un alunno straniero è più vulnerabile di altri, spesso più debole dal punto di vista scolastico ed esposto al rischio degli effetti dell’emarginazione sociale (Selleri, 2005).             L’educazione interculturale è certo uno strumento di cambiamento: conoscere, comprendere e rispettare altre culture, ricercare uno spazio neutro in cui incontrarsi, decentrare il proprio punto di vista, sono capacità educative indispensabili nella quotidiana attività didattica, non solo in presenza di alunni stranieri. Per contrastare il fenomeno di un’integrazione assimilativa, che richiede agli alunni stranieri di adattarsi alla cultura della scuola che li accoglie, è necessario ampliare e integrare le categorie di solito usate per raccogliere informazioni indispensabili alla ricostruzione della conoscenza altrui. Perciò
si dovranno conoscere il sistema scolastico del paese di origine, il modo in cui sono organizzate le classi, le regole e i codici di comportamento, le caratteristiche della mediazione educativa attraverso la quale avviene l’apprendimento degli strumenti cognitivi, la biografia scolastica del singolo alunno. Per questi studenti immigrati, come per gli studenti autoctoni, che si trovino a vivere una situazione di disagio nell’ambito scolastico, esistono alcune strategie utili al superamento di un blocco molto spesso di natura emotiva.
Strategie motivazionali Nel 1999 Pietro Romei parlando di disagio scolastico mise l’accento sul carattere scarsamente motivante della scuola odierna. L’esperienza scolastica, secondo l’Autore, per quanto abbia un ruolo centrale per la crescita di ogni individuo, non è accompagnata da quella motivazione ad apprendere che spingerebbe gli adolescenti ad investire le loro energie intellettuali in un percorso formativo intenzionale. Sottolinea Maria Luisa Pombeni: “Nel momento in cui l’investimento sulla formazione viene ormai considerato come condizione fondamentale per la crescita e lo sviluppo occupazionale (Libro Bianco della Commissione europea sull’occupazione), la motivazione nei confronti dello studio (e forse la mancanza di prospettiva lavorativa collegata alla formazione) tende a calare. Si sta verificando una specie di gap fra l’investimento sulla formazione che sta maturando a livello di scelte politico-istituzionali e il disinvestimento nei confronti dell’esperienza scolastica che sembra caratterizzare le generazioni contemporanee di adolescenti e giovani” (Pombeni, 2000).             Per intervenire sul disagio scolastico, è quindi molto utile focalizzare la nostra attenzione sull’aspetto motivazionale. La motivazione può essere definita a partire dalla sua origine etimologica, la parola “motivazione” deriva dal latino motus, che significa movimento verso qualcosa (Angeretti, Moè, Pazzaglia, De Beni, 2007), potremmo quindi spiegarla come “fattore dinamico del comportamento che attiva e dirige un organismo verso una meta” (Vianello, 1995, 420) o, più specificamente, come “una configurazione organizzata di esperienze soggettive che consente di spiegare l’inizio, la direzione, l’intensità e la persistenza di un comportamento diretto ad uno scopo” (De Beni e Moè, 2000, 37), o ancora “un pattern organizzato di tre funzioni psicologiche che servono a dirigere, attivare e regolare l’attività rivolta a un obiettivo: gli obiettivi personali, i processi emozionali, le convinzioni dell’individuo circa la propria capacità di agire per raggiungere un determinato obiettivo” (Boscolo, 1997). Tra i costrutti motivazionali occorre notare una prima distinzione, quella tra motivazioni primarie e secondarie: motivazioni quali la curiosità e l’autodeterminazione, emergono precocemente ed hanno origine interiore, sono intese come espressione di un bisogno; premi ed elogi, invece, sono motivazioni estrinseche, esterne rispetto all’attività oggetto di motivazione. Esistono poi motivazioni orginate dalle credenze, dalle convinzioni, dalle esperienze pregresse del soggetto, dalla percezione della propria abilità, dall’interpretazione dei successi e degli insuccessi. Carol Dweck ha analizzato la relazione tra motivazione e convinzioni, trovando che queste ultime determinano gli obiettivi che gli studenti si pongono, originando stili motivazionali adattivi o disadattivi, rilevabili negli effetti che hanno sulle reali situazioni di studio (Dweck, 2000). Alcuni soggetti possiedono teorie entitarie della propria intelligenza, ovvero convinzioni che spiegano la stessa come un tratto fisso, non modificabile, perciò la si possiede in una certa quantità e non la si può incrementare. All’opposto, esistono soggetti che intendono l’intelligenza come una facoltà che si può accrescere attraverso l’apprendimento, questa teoria è detta incrementale e sostiene che sia possibile diventare intelligenti. Per coloro che possiedono una teoria entitaria le situazioni impegnative rappresentano una minaccia alla propria autostima, una sfida alla propria intelligenza, sono cioè avvertite come pericolose. Conseguentemente i soggetti che possiedono tale teoria sono portati a desistere di fronte alle difficoltà, a scegliere obiettivi facili, che non comportino rischio di fallimento, a difendersi e rinunciare a situazioni nuove di apprendimento, in casi estremi possono evitare il compito o limitare le opzioni di scelta. Coloro che invece possiedono una teoria incrementale vivono le situazioni impegnative come sfide, come occasioni per migliorare la propria intelligenza e di fronte ad un fallimento, si sentono ancora motivati ad apprendere (Angeretti, Moè, Pazzaglia, De Beni, 2007).             Una conseguenza visibile del possesso di tali teorie è la diversa interpretazione dell’impegno, vissuto come indice di scarse capacità da chi possiede una teoria entitaria (chi è molto intelligente riesce senza impegnarsi, perciò chi si impegna molto dimostra la propria incapacità), o come mezzo che attiva la propria intelligenza da chi possiede una teoria incrementale.             Nelle due teorie sono molto diversi anche gli obiettivi a cui gli studenti puntano, la Dweck (2000) distingue a tal proposito obiettivi di prestazione e di padronanza: coloro che sono orientati alla prestazione vogliono dimostrare le proprie capacità, ottenere buoni giudizi ed evitare giudizi negativi; coloro che invece sono orientati alla padronanza cercano di acquisire nuove conoscenze e abilità, di sviluppare le proprie competenze. I due obiettivi spesso coesistono nella stessa persona e non sono così nettamente distinti. Come riportano Angeretti et alii, la relazione tra obiettivi di apprendimento e teorie implicite sull’intelligenza sembra indicare che la teoria entitaria si associa a obiettivi di prestazione, mentre la teoria incrementale si associa ad obiettivi di padronanza, in una relazione però non rigida. Le teorie sull’intelligenza si formano nei bambini grazie ai messaggi che ricevono da parte di figure importanti, quali insegnanti e genitori, a seguito di successi o insuccessi in compiti diversi. Interpretazioni che sottolineano l’importanza delle abilità (“sei brava!”, “sono fiero di te”) suggeriscono una teoria entitaria, sottolineare invece l’impegno e lo sforzo (“il compito è svolto correttamente”, “puoi fare qualcosa per migliorare?”) suggerisce una teoria incrementale. I feedback cioè, siano essi positivi o negativi, possono basarsi sui tratti o sull’impegno; il primo tipo, secondo quanto dimostrato da Dweck, può creare vulnerabilità, portando il bambino a sviluppare obiettivi di prestazione e risposte di impotenza di fronte alle ovvie difficoltà di un percorso di apprendimento. I feedback basati sull’impegno invece, sembrano favorire un orientamento alla padronanza, anche di fronte a fallimenti o difficoltà. Ridimensionare idee e convinzioni non funzionali ha un effetto positivo sulle prestazioni scolastiche e sul benessere psicologico degli studenti, esserne consapevoli costituisce un primo passo importante. (Angeretti, Moè, Pazzaglia, De Beni, 2007).             Sostenere la motivazione rappresenta uno dei compiti fondamentali dell’attività di un docente, nonché una strategia di intervento per la prevenzione del disagio scolastico. Soltanto stimolando la motivazione all’apprendimento, infatti, il docente può trasmettere conoscenze, insegnare competenze e potenziare le capacità personali degli allievi. Una prospettiva educativa che si rapporti con la complessità dei fenomeni connessi al disagio e che ambisca a dialogare con le giovani generazioni, deve agire sulla motivazione. Le strategie motivazionali sono molteplici e vanno dal rafforzamento della motivazione estrinseca, alla scelta di strategie didattiche personalizzate per rafforzare la motivazione intrinseca, all’intervento tes
o al rafforzamento del senso di auto-efficacia, in una prospettiva che si focalizza “sull’intreccio di fattori cognitivi, affettivi e motivazionali che costituiscono l’orientamento motivazionale dell’individuo” (Boscolo, 1997). Il progetto educativo, deve creare le condizioni affinché ogni soggetto possa esprimere la propria singolarità ed autonomia e possa attribuire significatività al proprio apprendimento. Riferendosi alla teoria dell’autodeterminazione di Deci e Ryan, Boscolo scrive: “essa postula tre bisogni innati: di competenza, di legame affettivo con gli altri, di autonomia. Questi bisogni specificano le condizioni contestuali che favoriscono la motivazione: in altre parole, l’individuo è tanto più motivato quanto più il contesto sociale in cui si trova gli dà l’opportunità di soddisfare questi bisogni fondamentali” (Boscolo, 1997). Il docente perciò deve trasmettere allo studente che l’ambiente in cui sta lavorando è completamente sicuro, soprattutto dal punto di vista psicologico, deve fare intuire allo studente, soprattutto quello che vive una condizione di svantaggio e/o di disagio, che si ha una considerazione positiva verso la sua persona; deve quindi predisporre le esperienze in modo tale che gli alunni possano raggiungere un certo livello di autostima, necessario per far sviluppare loro delle aspirazioni conoscitive e formative. Questo approccio riflette la convinzione rogersiana che ogni soggetto abbia in sé delle qualità da valorizzare e stimolare e che ogni studente sia motivato ad apprendere, anche se la prassi scolastica tradizionale lo porta a perdere la motivazione interiore. “Il giovane è già di per sé motivato, e in grado assai alto. Molti elementi nell’ambiente in cui vive costituiscono altrettante sollecitazioni per il suo intrinseco interesse. Egli è curioso, bramoso di scoprire, di conoscere, di risolvere problemi. Un deplorevole risultato della maggior parte delle esperienze educative è che il ragazzo, dopo qualche anno di scuola, vede sostanzialmente scoraggiata ed affievolita questa sua motivazione interiore” (Rogers, 1973, 160). E’ proprio la motivazione interiore che deve essere attentamente stimolata e coltivata, sul suo consolidamento il docente deve investire risorse culturali ed energie personali. Come sottolinea Semeraro, “spesso gli insegnanti non considerano l’importanza dell’incontro tra questi due ambiti motivazionali [motivazioni intrinseche ed estrinseche] e procedono nello svolgimento del programma, non preoccupandosi di controllare continuamente se i saperi disciplinari che essi stanno proponendo (e le attività che richiedono agli allievi) risultino per essi intrinsecamente motivanti” (Semeraro, 1999, 90). La motivazione intrinseca fa percepire l’insegnamento come significativo, come qualcosa che risponde ai bisogni di crescita, di conoscenza e di autorealizzazione. Alcune metodologie didattiche che possono promuovere l’apprendimento basandosi su una incentivazione della motivazione intrinseca sono, ad esempio, la presentazione di argomenti che rispondano ai reali interessi degli alunni, come pure l’invito ad applicarsi in percorsi di ricerca che rispecchino le loro attitudini e soddisfino le loro curiosità. La promozione dell’interesse, del desiderio di conoscere e della voglia di scoprire non può essere infatti un obiettivo di secondo piano nella programmazione di un insegnante. “Se si vogliono creare le condizioni per un apprendimento davvero libero ed autonomo è necessario che lo studente venga posto di fronte ad un problema da lui sentito come reale” (Rogers, 1973, 159). La proposta didattica e pedagogica è, quindi, quella di “personalizzare il curricolo”, sforzandosi di individualizzare sempre più il proprio insegnamento e di anteporre alla propria attività un serio lavoro di indagine, incoraggiando gli studenti nella scelta degli obiettivi dell’istruzione. Condurre l’insegnamento facendo riferimento alle motivazioni, permette che l’alunno si applichi con interesse al lavoro scolastico, ottenendo maggiori successi nell’apprendimento. La partecipazione dell’alunno diventa in tal modo un elemento centrale nella costruzione del sapere, nella condivisione e nella trasmissione delle conoscenze. [1]             Tra le strategie motivazionali finalizzate alla prevenzione e alla risoluzione del disagio scolastico, un ruolo di primaria importanza ricoprono tutte quelle proposte operative di cui gli insegnanti si possono avvalere per migliorare negli studenti il senso di autoefficacia. Spesso l’atteggiamento passivo ed orientato all’insuccesso, fattore predittivo del disagio scolastico, è causato da un basso livello di “autoefficacia” (self-efficacy), che modifica i comportamenti soggettivi. Il concetto di autoefficacia non è sufficiente per spiegare il fenomeno del disagio scolastico, di fianco alla carenza di self-efficacy è infatti possibile richiamare un basso livello di locus of control interno (ossia la rappresentazione che il soggetto ha di sé come persona capace di influenzare gli eventi con le sue azioni) e l’affermarsi di una sorta di “impotenza appresa” (learned helplessness).             “Il senso di efficacia è un costrutto cognitivo che rappresenta le convinzioni degli individui sulla loro capacità di eseguire compiti a un certo livello; esso influenza la scelta delle attività, lo sforzo che l’allievo spende in un compito e la sua prestazione. Gli individui con alto senso di efficacia sono più disposti a partecipare alle iniziative, lavorano con più impegno, persistono più a lungo nei compiti e hanno meno reazioni negative quando incontrano difficoltà” (Boscolo, 2006). Nel contesto scolastico i livelli di autostima e di autoefficacia giocano un ruolo fondamentale nel permettere agli studenti di fare delle previsioni e quindi di scegliere di impegnarsi o meno nel compito formativo che viene loro affidato. L’immagine che ognuno di noi ha di sé è estremamente importante ai fini della motivazione ad apprendere; la valutazione dei nostri comportamenti e delle nostre capacità influenza lo svolgersi delle nostre azioni e delle nostre scelte future. Non è pertanto affatto secondario quale sia il livello di self-efficacy che accompagna le azioni degli studenti e non può esserne sottovalutata l’influenza: più è basso il livello di autoefficacia, meno lo studente sarà stimolato ad affrontare compiti impegnativi e difficili, convinto di un sicuro fallimento. Dobbiamo tuttavia ricordare che il concetto di autoefficacia è intrinsecamente relazionale, ossia si costruisce sull’immagine di sé che dall’esterno viene rinviata al soggetto. L’immagine negativa offerta dall’esterno genera un profondo senso di insicurezza che paralizza tutte le qualità positive dell’alunno, impedendogli di mettersi alla prova. La realtà del nostro stesso io viene sperimentata attraverso la relazione con l’altro, che conferma o meno l’ immagine di noi stessi. Scrive Michail Bachtin: “Essere significa essere per l’altro e, attraverso l’altro, per sé. L’uomo non ha un territorio interiore sovrano, ma è tutto e sempre al confine e guardando dentro di sé si guarda negli occhi dell’altro. Il riconoscimento non può essere autoriconoscimento. Il mio nome io lo ricevo da un altro ed esso esiste per gli altri” (Bachtin, 1988). Lo sguardo altrui ricopre quindi dei significati fondamentali rispetto alla nostra progettualità esistenziale. Il problema dell’altro che ci guarda, ci giudica e ci valuta, rinvia alla dimensione più originariamente relazionale del nostro essere e ci rende sempre bisognosi di un riconoscimento che ci gratifichi e confermi. Come sottolinea Maria Grazia Contini: “che il nostro esistere fluisca nello spazio delineato e reso provvisto di senso dallo sguardo altrui, ci sottrae a una inimmaginabile desertica solitudine ma, il problema è proprio questo, ci rende anche bisognosi di
un certo tipo di sguardo, timorosi di un altro, esposti ad una pluralità contrastante, a volte contraddittoria, di riconoscimenti, che possono confermarci o negarci, promuovendo gratificazione, incentivando possibilità costruttive, decretando mortificazioni e ferite” (Contini, 2002, 94-95). Un’immagine negativa di sé proposta da un insegnante può quindi produrre nel ragazzo un senso di insoddisfazione e di insicurezza che possono sfociare nel disagio. Strategie comunicative La comunicazione è un fenomeno importantissimo, la conoscenza e padronanza di uno stile comunicativo efficace è essenziale per la creazione di rapporti di relazione e socializzazione e risulta indispensabile in un ambiente come quello scolastico. Lo stile comunicativo usato in ambito scolastico può facilitare o ostacolare il processo di insegnamento-apprendimento e si rivela quindi di estrema importanza per l’insegnante e per i suoi rapporti con gli studenti, soprattutto con quelli che presentano vissuti di disagio. La scelta delle metodologie comunicative solitamente si basa sulla disposizione individuale e non su un’accurata analisi di come il rapporto comunicativo con lo studente possa effettivamente condizionare il percorso formativo. La scuola odierna, “separata e solitaria” (Frabboni, 2000, 23) è strettamente divisa in classi, all’interno delle quali si instaurano modelli comportamentali e comunicativi asimmetrici, in cui si precisa la posizione dominante dell’insegnante e quella subalterna dell’allievo. Molti studi in ambito psicologico e pedagogico hanno però sottolineato come spesso la discriminante tra progetti educativi coronati da successo e progetti falliti si trovi proprio nella scelta dell’atteggiamento comunicativo. Queste indagini hanno evidenziato che esistono molteplici fattori che possono agevolare o meno la relazione adulto-ragazzo, condizionando anche i procedimenti di apprendimento. Non è un caso, quindi, che pensando le strategie operative per la prevenzione e cura del disagio scolastico, Petruccelli (2005) proponga il counseling come metodologia comunicativa in grado di stimolare lo studente e di migliorarne il rendimento. Se il counseling indica una professionalità che non può essere affatto improvvisata è indubbio che la conoscenza dei suoi paradigmi teorici possa aiutare gli insegnanti a realizzare un setting formativo stimolante e soprattutto motivante. Il counseling si basa sui tre principi chiave dell’accettazione, dell’ascolto attivo e dell’empatia, ossia i fondamenti della prospettiva rogersiana che, nonostante si occupi delle regole comunicative del setting terapeutico, dà importanti indicazioni anche di carattere pedagogico. Per accettazione Rogers intende la capacità di accettare i sentimenti dell’altro senza sentire il bisogno di valutarli, né di agire su di essi con modalità investigative, interrogando l’altro o chiedendo informazioni aggiuntive o precisazioni. L’accettazione ha come finalità la facilitazione di una comunicazione spontanea, che può verificarsi solo a condizione che si abbandoni lo stile valutativo usando un ascolto attivo, realmente empatico (Scurati, 1973, 25). Soltanto l’empatia permette una vera comprensione dell’altro e produce un profondo cambiamento nei soggetti coinvolti nella relazione; l’ascolto attivo è dunque un elemento importantissimo, ma è usato da Rogers in un senso particolare, che non coincide con l’accezione comune di questo termine. “Quando dico di provare una gioia profonda nell’udire qualcuno, naturalmente intendo alludere a qualcosa che oltrepassa il significato letterale della parola «udire». Nel senso in cui l’uso io, udire equivale a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale e persino il significato più riposto ed inconscio del messaggio che mi viene trasmesso” (Rogers, 1973, 253). L’ascolto proposto da Rogers necessita di far proprio il quadro di riferimento dell’interlocutore per capire le sue idee e le sue sensazioni, fino al punto di poter essere in grado di riassumerle al suo posto. Spesso ascoltiamo gli altri pensando di comprendere ciò che viene detto, ma facilmente interpretiamo, proiettando i nostri significati sulla situazione e sulle parole dell’altro. La capacità di ascolto attivo, che secondo Rogers ogni terapeuta/insegnante dovrebbe sviluppare attraverso l’esperienza, trasforma la figura del docente, che si pone come obiettivo quello di “facilitare gli allievi a chiarirsi cognitivamente ed emotivamente, mettendoli in condizione di affrontare con più consapevolezza le diverse situazioni”. Fidarsi dello studente significa credere che possa dare una direzione al proprio sviluppo, intraprendere un percorso di crescita autonomo e responsabile, grazie al sostegno e all’aiuto dell’adulto; si tratta di un approccio senza dubbio utile contro il disagio scolastico, soprattutto se interiorizzato ed approfondito in maniera consapevole. La peer education Il termine inglese peer education (“educazione fra pari”) è ben noto a livello internazionale nell’ambito educativo ed indica una comunicazione fra coetanei che instaurano un rapporto di educazione reciproca. La peer education può quindi essere intesa come una strategia didattica, un metodo educativo: alcuni membri del gruppo classe, particolarmente motivati, vengono formati per svolgere il ruolo di tutor nei confronti degli altri compagni; questi studenti, dopo aver partecipato ad incontri tenuti da esperti, diverranno leader rispetto ad un certo compito o a certi argomenti e condivideranno le loro nuove conoscenze con il proprio gruppo di riferimento. L’educazione tra pari è un percorso formativo volto a fornire specifiche competenze e a produrre un patrimonio di conoscenze che viene poi condiviso nel gruppo dei pari. I giovani formati ad agire quali peer educator divengono esperti su determinati argomenti e quindi agiscono quali “facilitatori” di cambiamento di atteggiamenti. Questo metodo si basa sulla centralità della relazione con i coetanei nello sviluppo psicosociale: tramite il gruppo dei pari l’alunno sperimenta nuovi ruoli sociali, acquisisce le norme e i valori di riferimento e trova un sostegno per rafforzare l’autostima. “E’ ormai pienamente riconosciuta l’importanza che il gruppo dei pari riveste nella costruzione dell’identità degli adolescenti. Tale gruppo rappresenta infatti un contesto tra i più preziosi per la necessità dei ragazzi di sperimentare l’identificazione, il confronto con gli altri, l’autoespressione: condividendo gli stessi compiti evolutivi, gli adolescenti possono fornirsi l’un l’altro informazioni inestimabili riguardo alle capacità sociali tipiche di tale fase di vita” (Nocchi e Pecchioli, 2002). Se durante l’infanzia le relazioni più significative sono quelle di tipo “verticale”, intessute con le figure genitoriali, durante l’adolescenza aumenta il bisogno di relazioni “orizzontali”, che si esprimono con la nascita di legami di amicizia preferenziale con i coetanei, con la creazione di stretti contatti con il gruppo spontaneo degli amici o con quello istituzionale dei compagni di classe, di squadra ecc. Questo potere del gruppo fa sì che esso non rappresenti solo una preziosa risorsa per il processo di crescita, ma che contenga anche dei rischi nel suo diventare mente collettiva che spesso si sostituisce alla mente individuale (Contini, 2000). La peer education stimola i giovani ad accedere alle informazioni e ad impegnarsi nella loro diffusione e socializzazione. Il punto di partenza su cui si fonda tale metodologia è la convinzione che il gruppo dei pari possa offrire un’educazione ‘dal basso’ e debba quindi essere stimolato dalla scuola che lo accoglie, per utilizzarne al meglio la grande risorsa educativa. La peer education è quindi un progetto finalizzato a promuovere una relazione formativa tra gli studenti, una strategia educativa volta ad attivare un processo di trasmissione
di conoscenze, di emozioni e di esperienze da parte di alcuni membri di un gruppo ad altri soggetti di pari status. Queste considerazioni hanno permesso la promozione di progetti per il recupero della “relazionalità allargata” che sono risultati estremamente utili nella prevenzione e risoluzione del disagio (Catarsi, 2002, 16 ). Tutoring Tra le metodologie di intervento volte a rafforzare la fiducia in se stessi e a prevenire forme più o meno accentuate di disagio alcuni studiosi pongono le esperienze di “tutoring” che sostituiscono l’informale relazione educativa tra compagni, con interventi più formalizzati e strutturati. L’esperienza del tutoring è naturale, bambini ed adolescenti si aiutano spontaneamente e la psicologia dell’educazione ha dedicato molta attenzione all’apprendimento cooperativo ed agli effetti di tale esperienza didattica, ma con l’espressione “tutoring” si intende un approccio più complesso ed articolato che implica un’organizzazione precisa e strutturata del lavoro da svolgere, la definizione di un obiettivo ben delimitato, l’applicazione di un attento sistema di monitoraggio e, se necessario, di valutazione delle singole esperienze (Petruccelli, 2000). Quando si parla di “tutoring” si fa riferimento ad una relazione privilegiata in cui sono coinvolti due o più compagni che si definiscono rispettivamente tutor (docente, didatta) e tutee (discente, allievo). Utilizzato fra ragazzi di età diversa è un ottimo mezzo per favorire lo scambio e la crescita tra gli studenti di una stessa scuola. Il tutoring è altamente gratificante, poiché da un lato, i tutor imparano ad essere formativi nei confronti del tutee loro affidato e sviluppano un senso di autorealizzazione, dall’altro, il tutee vede rafforzare a propria autostima grazie all’amicizia con un ragazzo più grande. Orientare per affrontare il disagio Le strategie operative fino a qui trattate hanno indicato come obiettivo primario per la prevenzione del disagio l’accrescimento della consapevolezza, dell’autostima e dell’intenzionalità della scelta nei soggetti in educazione. In sintesi cioè si è sostenuto che per migliorare le condizioni di vita degli studenti si debba intervenire sulla percezione della self-efficacy e del riconoscimento del sé e a tal proposito un’ulteriore metodologia di intervento, non ultima in ordine di importanza, è rappresentata dall’orientamento formativo. L’orientamento formativo offre agli studenti gli strumenti necessari per muoversi entro una rete complessa di relazioni e di esperienze, dando loro la possibilità di selezionare le informazioni per attuare processi di scelta e di decisione autonomi e consapevoli[2]Fare dell’orientamento una metodologia di intervento significa riconoscere la centralità del soggetto in apprendimento e lavorare per sostenere il soddisfacimento dei suoi bisogni, il raggiungimento del successo scolastico, l’inserimento nel mondo del lavoro..  applicare delle metodologie valutative che non rilevino solo gli errori, ma valorizzino gli elementi positivi.


[1]    L’individualizzazione dell’insegnamento è da anni oggetto di studi teorici e sperimentali. Per questioni di spazio non è possibile offrire al lettore la ricostruzione del dibattito e l’indicazione delle strategie operative al riguardo. Tuttavia si rimanda alla lettura di: M. Baldacci, L’individualizzazione: basi psicopedagogiche e didattiche, Bologna, Pitagora, 1999; Id., L’istruzione individualizzata, La Nuova Italia, Firenze, 1993, p. 5; F. Frabboni, M. Baldacci (a cura di), Didattica e successo formativo: strategie per la prevenzione della dispersione scolastica, Franco Angeli, Milano, 2004.

[2]    Sul tema dell’orientamento si rimanda ai seguenti contributi teorici: A. Capone, F. Ferretti, L’orientamento nella scuola dell’autonomia, Franco Angeli, Milano, 1999; R. Biagioli, L’orientamento formativo, ETS, Pisa, 2003; L. Boncori, G. Boncori, L’orientamento, Carocci, Roma, 2002; G. Domenici, Manuale dell’orientamento e della didattica modulare, Laterza, Roma-Bari, 2000; L. Trisciuzzi, G. Franceschini (a cura di), le nuove attività della funzione docente nella scuola riformata. Figure di sistema e funzioni obiettivo, La Nuova Italia, Firenze, 2001; L. Nota, L. Mann, S. Soresi, I. A. Friedman, Scelte e decisioni scolastico-professionali. ITER, Firenze, 2002; L. Nota, S. Soresi, Autoefficacia nelle scelte, la visione sociocognitiva dell’orientamento, ITER, Firenze, 2000.

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