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Comportamento

Speranza nonostante la pandemia

In questo tempo caratterizzato dalla pandemia e dalle continue restrizioni sanitarie ha corroborato atteggiamenti e stili non sempre psicologicamente positivi. Sta avvenendo lentamente il rafforzamento di un processo di individuazione in cui ci si rinchiude facilmente in un processo di sicurezza personale e privatistico, a scapito della socializzazione e dell’empatia, che invece sono parti costitutive dell’essere umano come hanno dimostrato anche le recenti scoperte dei neuroni-specchio e dell’empatia. Oggi avere coraggio e osare, andare oltre lo schermo digitale, può essere paragonato a imprudenza e temerarietà, quasi punibile per legge perché si rischia di “contagiare”. Le recenti manovre legislative tra il ritorno in didattica a distanza o meno nelle scuole, la scelta dello smart working, rischiano di abituarci a non osare, a rimanere nelle zone di confort, a non esporci, non parlare agli estranei, stare attenti e vigili, armarsi di sospetto. Restare al sicuro e non correre rischi necessari conduce sempre di più la persona a rimanere in una sorta di impotenza appresa. Si continua a rimanere nel lavoro anche se non è più soddisfacente, non ci si preoccupa più di rivitalizzare alcuni rapporti anche affettivi. Si preferisce proseguire nel flusso degli eventi, anziché assumersi fino in fondo la responsabilità di essi determinandone il corso. Il paradigma classico della motivazione tra la scelta del piacere e sfuggire al dolore conduce ad adottare sempre di più una sorta di atteggiamento passivo e arrendevole nei confronti delle circostanze negative. Sembra che stia cambiando la percezione che l’individuo ha di se stesso, sempre di più condizionata dalla precarietà e dall’incertezza seppur vive nella società post-moderna della competenza e dell’efficienza. Come hanno dimostrato gli studi di Seligman l’ottimismo e il pessimismo non sono condizioni innate, ma sono processi che vengono appresi fin da bambini, attraverso le spiegazioni e i fattori culturali trasmessi dalle figure genitoriali, dalle esperienze della vita e dagli eventi ambientali favorevoli o sfavorevoli. Bisogna oggi rieducare a elaborare un processo di lettura della realtà di chi di fronte a eventi avversivi non diventa rinunciatario ma al contrario insiste tenacemente fino a racquistare potenza, ovvero l’arte della speranza che immunizza dalla paura di vivere e da stili depressivi. Si tratta cioè di acquistare il coraggio di affrontare le paure che trattengono dall’esprimersi compiutamente e dall’affermare le tensioni della propria personalità e dei propri obiettivi, ovvero oggi in modo particolare quelle del fallimento e dell’incertezza ansiogena. Ciò che differenzia l’atteggiamento del coraggio da quello dell’impotenza è che la persona non debba ignorare le paure e nemmeno gettarsi senza criterio in situazioni pericolose, ma semplicemente accoglierle, non negarle, non giustificarle. Il coraggio non è assenza di paura, ma riuscire invece a non lasciarsi paralizzare dalla paura. Le persone coraggiose riconoscono, accolgono e affrontano le paure, che emergono sempre di più di fronte a un nemico invisibile che mette in pericolo numerose vite. L’arte della speranza è quella che tende a un benessere psicologico in cui il metro di valutazione è l’autoefficacia, il superamento dei propri limiti per un valore ritenuto importante, il cui premio è riuscire ad attraversare la paura e fare in modo che essa non condiziona la struttura cognitiva e affettiva. Quando le paure e i timori diventano parte integrante della personalità si cerca di razionalizzarle e giustificarle fino a bloccarci finendo nel tempo a emergere come fenomeni carsici in forme di rimorso, rimpianti e insoddisfazioni. Questa riflessione è molto attuale soprattutto nell’approccio educativo attuale dei bambini in cui sia i fattori culturali sia sanitari convergono a rafforzare il ciclo di comando-resistenza coercitivo. I continui divieti e obblighi dei genitori unito a quello degli insegnanti e del governo rischiano di non aiutare lo sviluppo già nell’infanzia delle proprie potenzialità ma di arrendersi facilmente a una morale eteronoma, cioè a lasciarsi regolare da fonti esterni, a dare ad altri il controllo delle nostre possibilità. È vero che il bambino ha bisogno di qualcuno che sia per lui un punto di riferimento, pronto ad accorrere in caso di necessità, ma è altrettanto vero che ha bisogno di momenti in cui, da solo, affronta tutto ciò che lo circonda. In questo modo può scoprire la sua individualità unica e specifica, le sue facoltà e capacità gradualmente prendendo l’iniziativa per realizzare gli obbiettivi che si prefigge e che gli possono dare soddisfazione. Dunque se l’atmosfera in casa quando eravamo piccoli ha seguito lo schema della coercizione, probabilmente il bambino che eravamo ha reagito bighellonando e tirando ogni cosa per le lunghe fino a quando ha provocato nei genitori ingiunzioni sempre più severe fino a divenire comandi e minacce. Questo ha suscitato sfida e resistenza attiva. Ma la resistenza attiva porta al castigo e quindi abbiamo adottato anche una forma di resistenza passiva che ci permetteva di continuare indisturbati a fare quello che ci interessava. Non è forse vero che quando venivamo chiamati dai genitori qualche volta abbiamo risposto: “si arrivo!!, mentre continuavamo a giocare? Ecco dunque il ciclo comando- resistenza. In questo infelice e pedante tira e molla tra i continui comandi dei genitori e quel perdersi via via che rimane l’unica arma del bambino, e si viene a creare un circolo vizioso tra ordine e resistenza che spesso si estende a tutti i campi della vita. Non è vero forse che un’alta percentuale dei commenti degli insegnanti descrivono scarsi progressivi per eccessiva distrazione o perché il bambino non sfrutta tutte le sue capacità. Questo ciclo comando-resistenza paralizza l’adulto anche nelle relazioni soprattutto di fronte a qualcuno che ci dice cosa fare e rispondiamo talvolta con frasi tipo: “figuriamoci se vado in giro a urlarmi quello che devo fare come faceva mia madre”. In altre occasioni l’adulto si crea un eccessivo programma di doverizzazioni e di impegni ai quali non dà il tempo necessario per raggiungerli e li sottovaluta. Sbaglia insomma e non li realizza perché a volte sono contradditori e incoerenti tra loro. Di fronte alla loro irraggiungibilità finisce per attuare una forma di resistenza, sminuendoli e convincendosi di essere pigri, buoni a nulla e quindi si ammette che è colpa degli altri e della vita o peggio del destino o anche di Dio. Ecco come bisogna imparare questa arte che ci libera dalle catene nonostante le condizioni ambientali e sociali possono essere avverse. L’arte del coraggio prevede secondo la legge della gradualità dei passaggi e obiettivi intermedi in un processo che parta dal chiamare per nome le paure, conoscerle, per affrontarle con coraggio a piccoli passi, intriso di impegno e perseveranza. Se non ci si allena nel coraggio, si rafforzano le paure. Il fine ultimo di questo processo è quello di tendere a una vita ricolma e densa di significato, che non lascia spazio alla rinuncia e alla resa, ma dona sempre slancio nuovo per seguire i propri sogni e raggiungere i propri obiettivi. La capacità di vivere con consapevolezza anche in tempo di pandemia e nonostante le restrizioni previste può consentire di comprendere in ogni fascia di età che la vita dipende dalla volontà che la regge e la direzione. Bisogna insegnare già ai bambini che è bella l’opportunità di abbracciare ogni volta la vita anche se si cade, si fallisce o se si è delusi. La psicologia positiva o del benessere propone la ricerca di nuovi modelli a cui ispirarsi non irraggiungibili e lontani, come si è osservato dalla presentazione del personale sanitario capace di stare al fronte della guerra e in prima linea, o quei giovani e adolescenti che sono stati capaci di mettere in campo iniziative sociali di aiuto soprattutto nelle prime ondate della diffusione del Covid-19. La perso

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Enrico Russo

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