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Scuola

Nessuno ti ha insegnato la buona educazione?

Etimologicamente una contraddizione: il significato originale della parola educazione viene dal latino ex-ducere che significa letteralmente condurre fuori, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. L´idea deriva dalla filosofia platonico-socratica, secondo la quale imparare altro non è che un “ricordare” dalla nostra passata esistenza, e che tale conoscenza deve essere soltanto “portata fuori” da noi tramite la maieutica, letteralmente arte del far partorire. La parola insegnamento deriva invece dal latino insignàre col senso originario di imprimere, di lasciare un segno, “mettere dentro” all’altro qualcosa che prima non c’era.
L’insegnamento richiede necessariamente una posizione di asimmetria e di dipendenza fra gli interlocutori in cui c’è qualcuno che possiede dei saperi, e un altro che non sa e che deve apprendere, aspettando le “istruzioni” dal primo. E’ un processo unidirezionale in cui tecniche e contenuti vengono trasmessi da una parte all’altra, dal maestro all’allievo, senza possibilità di scambio, in quanto la transazione è fatta di “trasmissione” di oggetti (contenuti) verso colui che non li possiede.
Al contrario educare implica uno stare “accanto” all’altro, accompagnarlo verso l’autonomia in un processo che lo stimoli ad “andare verso…”, rendendolo abile ad orientarsi da solo nel mondo.
E’ un processo bidirezionale, in cui l’educatore stesso non conosce a priori l’andamento dello sviluppo del bambino, ma lo “scopre” insieme a lui, per cui i suoi programmi e suoi interventi vengono continuamente revisionati a seconda di ciò che il bambino fa, dice o chiede. Per questo l’educazione è un processo dialogico, di co-costruzione della conoscenza.
E’ chiaro comunque che fra insegnamento ed educazione (secoli e secoli di pedagogia, sociologia, filosofia ce lo insegnano) vi sia una continua tensione che si traduce nelle quotidiane sfide educative a cui non possono sottrarsi la famiglia, la scuola, e tutti servizi socio-educativi.
Gli educatori sono in parte anche insegnanti e viceversa.
I primi educatori di cui natura ci dispone sono i nostri genitori, che attraverso una relazione affettiva (di attaccamento) ci permettono una conoscenza del mondo, la quale non è riducibile a un’insegnamento tout-court di informazioni, procedure e contenuti, ma è qualcosa che si costituisce all’interno della relazione, attraverso gli scambi, i giochi di interazione, le narrazioni, duranti i quali genitrori e bambini negoziano le loro intenzioni, si sforzano di capirsi per mettersi d’accordo sui significati da attribuire al mondo.
Poi incontriamo gli insegnanti, chiamati a svolgere un difficilissimo ruolo che oscilla continuamente fra la preoccupazione di dover portare avanti i curricula scolastici, e il compito educativo a cui sono chiamati, che si traduce, o si dovrebbe tradurre, nel favorire la comprensione autonoma da parte degli allievi, instaurando con loro un dialogo “esplorativo” e stimolando la loro creatività nell´apprendimento. Dal momento che la conoscenza non coincide solo con i contenuti, ma li travalica perché è qualcosa che si acquisisce (come nella diade-madre bambino) all’interno di una dimensione intersoggettiva, fatta di comprensione reciproca, scambio di pensieri ed emozioni, per svilupparla occorrono tempi e spazi che ancora nell’odierno assetto scolastico vengono spesso “risicati” dall’imperativo che prende il nome: programma.
Poi incontriamo un’altra notevole quantità di soggetti che influenzano il nostro sviluppo e la conoscenza di noi stessi e del mondo: baby sitter, parenti, insegnanti di attività sportive o artistiche.
E talvolta, se siamo stati bambini sfortunati, incontriamo anche colui che viene definito “educatore professionale”. Quest’ultimo a un certo punto viene interpellato dai servizi sociali, generalmente attraverso l’intermediazione delle cooperative sociali (dalle quali l’educatore dipende), per contribuire col suo lavoro all’attuazione di un piano educativo rivolto a un caso difficile, o certificato, di frequente “disastrato” dal punto di vista scolastico. A tale piano educativo collaborano diversi professionisti (neuropsichiatria, assistente sociale, psicologa e via dicendo), ma l’educatore potremmo dire è colui deputato a entrare quotidianamente in campo, nel campo della relazione assidua e continutativa col bambino. E così l’educatore arriva a scuola e/o in famiglia per stare “accanto” al bambino ed accompagnarlo vero l’autonomia. All’inizio dovrà cercare di districarsi nell’intricato e complesso “bagaglio” di conoscenze (su se, sugli altri, sul mondo) che il bambino si porta con se per storia e natura, dovrà cercare di capirlo, di ascoltarlo quindi, e di farsi capire. Dovrà rendersi capace di osservare e di contenere, evitando griglie e pregiudizi. Dovrà mettersi nei panni di chi impara ed essere disponibile anch’egli ad apprendere e a lasciarsi sorprendere dalle risposte del bambino, in quel processo di co-costruzione del significato, di cui accennavamo in precedenza. Dovrà instaurare una relazione affettiva, all’interno della quale il bambino acquisisca la fiducia che si può andare “fuori” (ex-ducere), verso nuove conoscenze, nuovi modi possibili di stare con se e con gli altri. Si assumerà la responsabilità di creare quelle condizioni di “luogo protetto” in cui chi apprende può permettersi di abbandonarsi al vuoto conoscitivo, alla novità, allo straniero, al cambiamento. Diventerà cosi una zona di confine, fra un prima e un dopo conoscitivo, il luogo possibile di nascita del nuovo attraverso la condivisione di narrazioni, giochi, rituali. Soprattutto il gioco rappresenta per il bambino uno spazio privilegiato e rassicurante, lo spazio del “come se…” che in quanto tale permette di fare un’esperienza nuova, ma finzionale, un’esperienza di transizione che non comporta eccessivi rischi. L’educatore, quando possibile, userà il gioco in questo senso, come un luogo di apprendimento protetto, circoscritto e controllabile, all’interno del quale si fanno le prove per partire all’esplorazione del nuovo. Cercherà in sostanza di innescare un processo di disponibilità ad apprendere altro rispetto a quello che il bambino già sa o sa fare.
Dunque se vogliamo riportare al centro della nostra azione pedagogica il bambino e il processo di apprendimento dobbiamo sforzarci di elaborare strategie che forniscano motivazione e ragione alla necessità di apprendere; per far ciò dobbiamo ridare forza e priorità al concetto di relazione ricordandoci che ogni accesso alla conoscenza si presenta come una forma di iniziazione o meglio come un incontro. Solo grazie a relazioni solide, fidate, il bambino può permettersi di fare le prove per diventare grande, di sbagliare ed essere sostenuto, di rischiare e sentirsi protetto, sviluppando così la curiosità di andare oltre, e, alla fine, di andarci da solo…Prima parliamo d’altro, di noi, poi forse quando mi sarò conosciuto con te e attraverso di te, mi fiderò di te e di me, potrò aver voglia di conoscere il resto, anche la geometria, e perché no, anche le buone maniere.

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Laura Cioni

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