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Ripresa photo-verbale sull’etica della credulità o della comunicazione indiretta

Si apprende dalla letteratura[1] che l’amigdala, in quanto nucleo di gestione del flusso di energia proveniente dagli stimoli esterni al cervello, svolge, all’interno del sistema limbico, la primaria funzione di accogliere e valutare le informazioni emotive avviando un processo neurobiologico di risposta, comunemente tradotto in simboli significanti ed in un codice di valori vero e/o falso agli effetti della comunicazione.
Essa mette in moto i centri di arousal, che si trovano nella regione del tronco encefalico e del proencefalo, così da ottenere un immediato livello di eccitabilità necessario alla secrezione di catecolamine (adrenalina e noradrenalina).
Uno sguardo d’insieme all’intera fenomenologia chimica, fatta salva la mediazione dei sensi, ci permette di costruire un asse che ci conduce, per l’appunto, dall’amigdala all’ippocampo, definito organizzatore cognitivo[2], attraverso il giro del cingolo e la corteccia orbito-frontale.
Il sistema neurocognitivo di elaborazione delle informazioni primarie estetico-stimolanti e che giungono al cervello senza alcuna modalità di preavviso, per così dire, può risultare, grossomodo, completo ad un livello anatomo-funzionale, se aggiungiamo queste considerazioni: l’accertata asimmetria degli emisferi cerebrali ci indica che l’attività dell’emisfero destro si basa su processi molto rapidi, quali sono la percezione e le associazioni di immagini e sensazioni, mentre quella dell’emisfero sinistro si produce in un adeguamento logico-speculativo dell’esperienza.
Questo tracciato documentario-funzionale ci è d’aiuto fintantoché si accetti di esprimere una cognizione della realtà pre-filosofica o post-cognitiva o prettamente diagnostica, ovverosia nella misura in cui non si abbia, almeno di primo acchito, la pretesa di discutere l’ammissione di uno statuto di consapevolezza concernente il comportamento ed il raziocinio dell’individuo vivente.
Se è vero (com’è vero, credo… chi potrebbe sostenere il contrario?), come scrive Wittgenstein, che (prop.1) il mondo è tutto ciò che accade e che (prop. 1.1) il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose, occorre chiedersi come gli accadimenti e la totalità dei fatti rientrino negli atti di deliberata volontà di chi fa in modo che l’insieme delle cose costituisca fatto ed accadimento. Lo stesso Wittgenstein, infatti, continua così: (prop. 2.011) è essenziale alla cosa il poter essere parte costitutiva di uno stato di cose[3].
Dalla 2.011 si ricava come inequivocabile ed inderogabile l’appropriato intervento dell’organizzatore cognitivo ed, in seconda ma parallela istanza, l’integrale coinvolgimento dell’emisfero sinistro: in questo caso, la corteccia associativa invia precisi segnali alla corteccia orbito-frontale per la “costruzione” del pensiero astratto ed il lobo temporale-mediale invia segnali utili all’attivazione dei processi della memoria esplicita.
Qual è il momento in cui si può affermare che una cosa è parte degli stati di cose?
Oppure, in altri termini: quando l’individuo vivente può rilevare un fatto?
Ed inoltre: questo fatto rilevato è vero o del tutto infondato? Chi mi garantisce che il fatto rilevato non sia una distorsione interpretativa dovuta, per esempio, ad una patologia dei processi cognitivi?
Siegel, ne La mente relazionale, ci offre un perfetto protocollo di approfondimento a proposito degli adulti che presentano uno stato della mente non risolto/disorganizzato rispetto all’attaccamento:
Durante l’intervista, la presenza di un atteggiamento disorganizzato si traduce tipicamente in racconti in cui questi individui parlano di persone scomparse come se fossero ancora vive, oppure mostrano evidenti segni di confusione e disorientamento quando cercano di rievocare esperienze traumatiche legate alla loro relazione con i genitori: perdite o traumi non risolti si riflettono in una compromissione dei processi rappresentazionali che normalmente consentono la costruzione di un discorso coerente.[4]
Una riproposizione olistica dei dubbi e dello stesso fenomeno di scetticismo di rimando che si mantiene sullo sfondo dell’analisi finora compiuta sarebbe un netto imperativo a dichiarare che ogni finale di cognizione, in quanto atto assunto come volontario e significativo, non può manifestare l’essenza psicodinamica degli elementi che lo hanno preceduto e costruito fino a farne un messaggio.
La parodia semplice e curiosa della mia vita domestica mi permette di andare un po’ oltre l’impianto teorico.
Quando devo vestirmi, a causa di una sconclusionata abitudine di non dare mai ordine alle mie cose, chiedo spesso a mia moglie dove siano sistemati, ad esempio, il pullover rosso o la cravatta gialla: Ella, superato un iniziale istinto d’aggressione alla mia persona, dacché non si è mai capacitata come io non sia mai riuscito a memorizzare il posto di pullover e cravatte, mi indica l’esatta scansia dell’armadio. A questo punto, mi tocca andare a verificare: puntualmente, non trovo ciò che mi serve, così da essere costretto a richiamare ancora una volta l’attenzione di mia moglie, la quale mi appella in una maniera assai interessante: – Sei ipovedente -. Nel che, infatti, non intravvedo alcuna nota ingiuriosa. Di fatto, però, ella raggiunge impetuosamente l’armadio, lancia un’occhiataccia alle scansie e addita furiosa l’oggetto della mia richiesta, che si trova, su per giù, a trenta centimetri dal mio naso.
Io, di là da una discreta miopia, non ho una patologia talmente grave che non può essere corretta dalle lenti. Dunque: perché io non vedo più volte ciò che vede mia moglie e che, per di più, sta a trenta centimetri dal mio naso? Ne consegue, stando così le cose, un livello di comunicazione abbastanza incerto, non comune a due soggetti, che già, di per sé, condividono casa, abitudini e linguaggio. A prima vista, io non comprendo il suo statuto di consapevolezza perché non so utilizzare le sue unità di significato per il reperimento di pullover e cravatte, mentre ella non comprende il mio perché non intuisce ciò che m’induce a non vedere una cosa che sta a trenta centimetri dal mio naso.
Entrambi puntiamo l’attenzione sulla stessa scansia; entrambi seguiamo lo stesso percorso neurobiologico e cognitivo, quantunque semplice:
stimolo – sensi – amigdala – giro del cingolo – corteccia orbito-frontale – ippocampo
Sappiamo dall’assioma di Hebb che il tono edonico relativo ad una certa azione (tra linguaggio e comportamento) dipende dal fatto che neuroni che sono eccitati contemporaneamente tenderanno ad essere eccitati anche in seguito, pertanto il pattern di cognizione, fuorché ci siano stimoli in grado di alterare il dettato mnemonico, si pone come feedback immediato e criterio di conoscenza primaria, tale da determinare un vero e proprio valore di verità del linguaggio, verbale o non verbale.
E’ altresì implicito proporre in un modesto catalogo i segni della relazione olistica appena delineatasi :
1. Il mio linguaggio non è differente da quello di mia moglie;
2. Le unità funzionali di significato sono chiare ed esplicite;
3. Il destinatario viene rispettato come tale;
4. Io voglio il pullover, ma penso ad altro;
5. Mia moglie pensa al pullover, ma vuole altro;
6. Mia moglie pretende che io memorizzi la scansia;
7. Io non ho mai pensato alla scansia;
8. Mia moglie non ha mai pensato alla scansia, ma pensa alla scansia del pullover;
9. x -> infinito (?)
1.1 – Il mio linguaggio indica un fatto;
2.1 – Le unità funzionali di significato rappresentano uno stato di cose;
3.1 – Il destinatario designa un proprio stato di cose;
4.1 – Il pullover ed altro sono parti dello stato di cose;
5.1 – Il pullover ed altro di mia moglie sono parti di uno stato di cose differente;
6.1 – Mia moglie è stimolo per i miei circuiti neurali;
7.1 – Io non ho un pattern cognitivo per la specifica scansia;
8.1 – Mia moglie ha un pattern cognitivo per la specifica scansia;
9.1 – x ® ¥ (?)
Il cervello genera insiemi di segnali o codici modificando i ritmi di eccitazione di determinati neuroni o gruppi neuronali; per definire questi simboli mentali, creati da pattern di attivazione neuronale, è stato utilizzato il termine “rappresentazioni”. Le rappresentazioni sono processi dinamici; la loro forma e i loro effetti all’interno del cervello vengono modificati attraverso complessi meccanismi trasformazionali che vengono chiamati “processi cognitivi”. In questo modo la mente “computazionale” può identificare similarità e differenze, estrarre temi e principi generali partire da una serie di rappresentazioni diverse, creare nuove associazioni e combinazioni che possono essere ulteriormente elaborate da processi specifici.[5]
L’effetto della mia visione, che acquisisce linguaggio nel “qui ed ora” della rappresentazione manifesta, non è altro che il mio “senso del Sé” nel tempo, vale a dire nella dimensione atemporale e quindi paracronologica del prima e del poi sciolti dai contrassegni coniuganti dei tempi grammaticali e dei loro modi, e nello spazio, entro cui ogni luogo può farsi avverbiale soltanto nella apertura alloplastica della percezione. L’assioma di Hebb si completa allora con un altro componente assiomatico: tutte le volte in cui un bisogno non viene appagato, la mente produce un’esperienza psichica sostitutiva, senza tuttavia ridurre la quantità di pressione “neurotrasmettitoriale” esercitata dal legame associativo tra pulsione originaria e derivati ideazionali.
In questo senso, le rappresentazioni sensoriali sono quelle che più si avvicinano alle “cose in sé”[6].
Imitatori delle cose reali e del sapere.
Colui che tenta di informare qualcuno, di trasferire una conoscenza da sé ad altri col fine della comunicazione/persuasione, è chiamato non soltanto a sperimentare la propria capacità di simbolizzazione, per cui l’immagine “cane” deve riferirsi ora ad un “cane particolare” ora all’esperienza che ciascuno ha del “cane”, ma anche a rispettare i meccanismi di induzione/inclusione entro i quali il destinatario avverte il proprio “senso di sé” nel tempo e nello spazio. Infatti, in primo luogo, il destinatario, che riceve un impulso in un codice che non gli appartiene, viene richiesto d’un’immediata fatica: deve ridurre la distanza ermeneutica tra l’equilibrio del proprio apparato psichico ed il rischio di alterazione proveniente dallo stimolo esterno. All’impatto con l’immagine/rappresentazione “cane” la mente può inizialmente tutelare la propria stabilità in questo modo: «Non so, potrebbe appartenermi. E’ cosa buona o è cosa cattiva?». L’attestazione di autenticità viene conferita all’immagine solo nel momento in cui la mente riesce a produrre wittgensteinianamente uno stato di cose in cui il “cane” ottiene l’adeguato livello di appartenenza alla simbolica concettuale. La rappresentazione concettuale organizza segni e simboli della rappresentazione percettiva in modo tale che si sviluppino dei legami di significato: le idee. Anche in questo caso, come in quello precedente della ripresa photo-verbale, la mappa delle referenze fenomenologiche è compiuta. Purtuttavia, le difficoltà teoriche cominciano proprio dove ha termine una qualsivoglia ripresa photo-verbale.
Se l’asse di conoscenza-riconoscimento dei fatti stimolo – sensi – amigdala – giro del cingolo – corteccia orbito-frontale – ippocampo varia a seconda delle modalità di attivazione dei pattern neuronali e, soprattutto, d’una evoluzione psicodinamica di ciascun individuo che tenga conto delle relazioni di attaccamento genitore-figlio e ancora: andando oltre, se i principi della comunicazione sociale si basano sulla condivisione delle idee, le quali non possono essere definite altrimenti che come simboli rappresentativi dei processi di simbolizzazione primaria, com’è possibile seguire una linea autentica di intelligibilità delle nostre unità funzionali di significato?
In molte situazioni la coscienza è quindi un “epifenomeno”, che non è essenziale nel determinare le nostre successive risposte allo stimolo.[7]
Per quanto possa sembrare sconcertante, la logica del comunicatore, in particolare quella della persuasione, trae origine da un criterio d’inganno, cioè da uno scarto tra PROBABILITA’ e FALSITA’: i valori di verità, nell’epoca delle neuroscienze, non possono più essere rappresentati da Vero e Falso ma unicamente ed ineccepibilmente da Probabile e Falso. La VERITA’ consiste nel mantenere l’intenzionalità semantica delle proprie unità funzionali di significato all’interno del valore Probabile, mentre la FALSITA’ consiste nel presentare assertivamente come Vero qualcosa che può solo rimanere Probabile.
Di conseguenza, la struttura dell’implicazione logica A → B, il cui valore di verità è da ricercarsi nella probabilità di Q, dal momento che, data la tavola dei valori:

A B A→B
V V V
V F F
F V V
F F V

per A, B dev’essere vera;
per ¬ A, B può essere vera o falsa;
si ha

A B A→B
P P P
P F F
F P P
F F F


Il gioco logico applicato all’implicazione è sempre lo stesso, ma ritengo che si farebbe bene a non considerare utile il metalinguaggio della logica fuorché all’interno di un sistema condizionato da regole.
Nel Sofista, Platone ricorre a due eccellenti espressioni per definire il ruolo dei sofisti: μιμητης των oντων (fr. 235a) e μιμητης του σοφου (fr. 268c), cioè imitatore delle cose reali ed imitatore del sapere[8].
Il linguaggio platonico, com’è noto, si serve di una grammatica che coniuga interamente il participio presente di ειμι (io sono), fornendo addirittura una declinazione dei casi, a differenza di quella latina e di quella italiana. Nel caso in specie, oντων è il genitivo plurale maschile del participio presente di ειμι. Facendo seguito a questa puntualizzazione, oντων sarebbe da tradurre brutalmente con il participio sostantivato “essenti”, naturalmente espresso al genitivo con la preposizione, meglio reso nel tempo da filosofi e grammatici con il latinismo ente.
Quindi: imitatore degli enti meglio che imitatore degli essenti.
L’indagine neuroscientifica ci istruisce a proposito del fatto che l’ente corrisponde alla simbolizzazione dei processi di simbolizzazione primaria, ovvero ad una categorizzazione regolativo-rappresentazionale delle rappresentazioni sensoriali. L’ente corrisponde così a ciò che è sempre altro da ciò che è: esso non solo non è, ma non può neanche non essere. Esso è qualcosa solo in quanto lo si esprima in funzione d’altro, quindi, di per sé, non è; tuttavia non può esclusivamente non essere in virtù della sua funzione regolativo-rappresentazionale.
In definitiva, non ha senso parlare di ente se non come di una dimensione logico-valoriale della PROBABILITA’ del pattern cognitivo.
Il sofista mostra allora una notevole dose d’arguzia nell’imitare il sapere, certo di potere sempre essere risucchiato dal vortice delle differenze che ogni fatto di conoscenza comporta: imitare il sapere vuol dire concepire e ricreare la mente d’altri.
Il pazzo, inteso non come malato, ma come “devianza” costituita e alimentata, come funzione culturale indispensabile, è divenuto nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge.
Questo personaggio, nella forma in cui (…) si è istituzionalizzato a poco a poco nella psichiatria del XIX secolo, è colui che si è alienato nell’analogia. E’ lo sregolato burattino del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli estranei; crede di smascherare e impone una maschera. Inverte tutti i valori e tutte le proporzioni perché crede continuamente di decifrare dei segni: per lui gli orpelli fanno un re (…) Esso è il Differente solo nella misura in cui non conosce la Differenza[9].

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