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Neuroscienze

L’ipotesi della paura innata

L’ipotesi della predisposizione innata alla paura verso specifici stimoli ambientali

Da un punto di vista darwiniano siamo portati ad identificare selettivamente tutti quegli stimoli che potrebbero inficiare il nostro benessere, al fine di evitare il confronto diretto con gli stessi. È come se esistessero dei vincoli biologici in grado di farci capire istintivamente cosa dobbiamo e cosa non dobbiamo temere, e di renderci consapevoli della pericolosità di certi elementi, fattori o contesti, ancor prima di averla sperimentata in maniera empirica. Si tratta di un principio sostenuto dalla teoria della predisposizione biologica alla paura, che afferma l’esistenza, nell’essere vivente, di una capacità di intuire la pericolosità di certi fattori ancor prima di aver maturato con gli stessi un’esperienza negativa. Questo assunto, convalidato da dimostrazioni sperimentali, evidenzia da una parte un sostanziale coinvolgimento biologico nell’instaurazione e nel mantenimento del vissuto pauroso/fobico, e dall’altra la possibilità che tale coinvolgimento possa comportare una modifica – del circuito della paura geneticamente trasmissibile.

Le paure innate e gli esperimenti scientifici

L’essere umano ha appreso a temere certi stimoli in via adattiva e ad evitarli per garantirsi la sopravvivenza: dunque alcuni stimoli vengono percepiti d’istinto come potenzialmente dannosi, e in questa percezione difensiva si riscontra l’eco delle esperienze negative che hanno coinvolto i nostri antenati. Ad esempio il timore del buio deriva dalla funzione minacciosa dell’oscurità che, sottraendo la luce rende più insidiosi i pericoli e più difficile la difesa; ancora la paura dell’altezza- acrofobia- deriva dal pericolo percepito nelle profondità e dalla minaccia di precipitare nel vuoto senza possibilità di appiglio, così come la paura dei rumori forti – fonofobia- , con la sua modifica dell’omeostasi, sottende la minaccia di un pericolo inatteso e incontrollabile; l’aracnofobia- paura dei ragni- e l’odifiofobia- paura dei serpenti- sono considerate il retaggio di un periodo storico nel quale l’incontro potenzialmente letale con certi animali era molto più frequente e imprevedibile, a fronte di minori e meno organizzate possibilità di difesa.

La presenza delle paure appena descritte è stata riscontrata, a mezzo di esperimenti specifici, già in bambini pochi mesi. Sulla base di ciò sarebbe plausibile scindere la dimensione della paura da un vissuto prettamente esperienziale, ammettendo come l’organismo, sulla base di un istinto adattivo filogeneticamente tramandato, sarebbe in grado di riconoscere in via differenziale gli stimoli maggiormente pericolosi da quelli neutrali, pur in assenza di un’esperienza pregressa in tal senso.

La convalida di questa ipotesi è giunta dopo l’esperimento svolto da un gruppo di studiosi coordinato dalla dottoressa Stefanie Hoehl, -Institute for Human Cognitive and Brain Sciences di Lipsia- i quali hanno sottoposto un gruppo di neonati di sei mesi alla visione -controllata in laboratorio- di una serie di immagini aventi rispettivamente ad oggetto le raffigurazioni di ragni e fiori, e quelle di pesci e serpenti.

I piccoli hanno assistito alla proiezione stando seduti sulle ginocchia dei genitori, che avevano il compito di confortare eventuali scoppi di pianto o crisi d’ansia. Per quanto non si siano verificate reazioni così marcate, i bambini hanno tuttavia mostrato una sorta di attivazione sensoriale, testimoniata da un allargamento della pupilla monitorato attraverso sistema di eye tracking basato su raggi infrarossi. Nello specifico, durante la proiezione della immagini riguardanti il ragno la pupilla si è allargata di 0,14 millimetri, per tornare a 0,3 mm durante la visione dei più innocui fiori. L’allargamento conseguente la visione dei serpenti è stato addirittura di 0,16 mm, superando di gran lunga quello attivato in corrispondenza della proiezione dei pesci. Questo allargamento, non certo causale, costituisce il primo segnale di un’attivazione simpatica contro la possibilità di un attacco esterno. In particolare la dilatazione dell’iride sarebbe provocata dal rilascio di noradrenalina o norepinefrina, largamente coinvolto nei processi di attivazione attacco- fuga (Hohel, 2015).

Esperimenti svolti sugli animali hanno riportato risultati analoghi, dimostrando un dato ulteriore: gli stimoli per natura percepiti più minacciosi sono gli stessi che apprendiamo più facilmente a temere in via condizionante. Anche semplicemente attraverso un’esperienza vicaria, e dunque maturata da altri.

Nello specifico, un gruppo di scimmie rhesus venne posto di fronte ad un video in cui soggetti appartenenti alla loro stessa specie si trovavano alle prese con quattro tipologie diverse di stimoli: un finto serpente, un finto coccodrillo, un finto coniglietto e un mazzo di fiori (Cook e Mineka, 1989). La reazione dei macachi proiettati nel video si mostrò spaventata soltanto con i primi due stimoli, mantenendosi neutrale con i rimanenti: atteggiamento pedissequamente replicato dalle scimmie poste di fronte al video, che appresero pertanto a temere uno stimolo minaccioso i pur non avendo maturato con lo stesso un’esperienza negativa diretta.

È pertanto plausibile sostenere che sia più facile insegnare la paura di stimoli minacciosi che di stimoli neutri, in quanto l’essere vivente è istintivamente in grado di percepire la minaccia di uno stimolo grazie all’eco ancestrale dell’esperienza degli antenati che lo hanno tramandato in via filogenetica (Menzies e Clarke, 2005).

Si tratta di un risultato importante dal punto di vista clinico, dato come suggerisca la necessità di integrare le teorie sul condizionamento fobico con modelli biologici attinenti proprio il sistema cerebrale della paura, ammettendo che, per l’instaurazione di alcune fobie, non sarebbe necessaria nessuna precedente esperienza condizionante.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Menzies, R. G., & Clarke, J. C. (1993). The etiology of fear of heights and its relationship to severity and individual response patterns. Behavior Research and Therapy, 31, 355–365;

Menzies, R. G., & Clarke, J. C. (1995). The etiology of phobias: A non associative account. Clinical Psychology Review, 15, 23–48.

Mineka, S. – Cook, M. (1988)  Social learning and the acquisition of snake fear in monkeys, in: Social learning: psychological and biological perspectives, edited by Thomas R. Zentall, Bennett G. Galef jr, Hillsdale (N.J.), Lawrence Erlbaum Associates, 1988, pp. 3-28.

https://scienze.fanpage.it/la-paura-dei-serpenti-e-dei-ragni-e-davvero-innata-parola-di-neonati/, consultato in data 12 luglio 2021.

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m. rebecca farsi

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