“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, diceva Pavese ne La luna e i falò. “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti“. Non sembra della stessa idea Vincenzo Lauria, che incontriamo per la prima volta alla stazione di Foggia diretto ad Aquilana, il luogo d’origine lasciato quindici anni fa e nel quale torna ora solo per dovere.
Forse non è un caso, o forse sì, che il cellulare si rompe e che al paese è saltata la luce. Vincenzo non può comunicare con il suo presente, con la sua donna rimasta a New York, Serena, ispiratrice della sua serenità e di un grande amore. Grazie a lei e alla terapia, cui l’autore accenna più volte, il passato si è ripulito degli ingombranti sensi di colpa, “lavato da una vita nuova”. Non del tutto però, viene da pensare, se Vincenzo ha sempre con sé gli ansiolitici e li usa quando il rischio di essere sopraffatto dalle emozioni si sostituisce all’iniziale estraneità.
Perchè il passato, nel silenzio della casa dell’infanzia, non può che tornare; nel lungo corridoio che conduceva alla stanza misteriosa dei genitori, nei luoghi senza i rumori americani a cui è abituato, e mentre è lì, a riveder le stelle, sotto un cielo limpido che per troppi anni non ha potuto vedere. Ritornano i suoni dimenticati delle cicale, i sapori di una tavola generosa, i paesaggi identici ad allora, dai quali il Sé di ora, costruito si intuisce meticolosamente, cerca di difendersi come può. Anzi, sembra far sua la convinzione di Nelson Mandela “Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati”.
In pochi giorni di sospensione, dopo la morte del padre, dal primo giorno estivo alla festa di San Giovanni, l’adulto di ora impegna tutte le sue energie nel tenere a bada le emozioni; finché pensieri ricordi inquietudini e sogni non avranno il sopravvento. Anzi, ricordi e sogni si confondono; ma che importa se le scene che affiorano appartengono davvero alla realtà o sono solo immaginate? E’ il contatto della mano materna che lo accompagna per casa, è la nonna Sabella che torna, quella un po’ strana, un po’ magica, ascoltatrice attenta delle storie inventate dal bambino Vincenzo. Una bella inversione di ruoli tra i due, che lascia intatta la loro complicità.
Ma magica è anche la terra lucana, che Carofiglio dice di aver scelto perché è come un’isola circondata di pietra e si sa che nell’isola è più facile liberare la fantasia, il ricordo o l’immaginazione.
Tornano anche, insieme ai ricordi, i dolori familiari. A Vincenzo viene in mente la citazione di Tolstoj: “Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo ”. Nella sua di famiglia la madre è morta di cancro, il fratello è scomparso durante la sua adolescenza, quasi di sicuro morto lontano da casa, come fanno gli elefanti che scelgono un posto isolato, delimitano un cerchio e lì dentro aspettano la fine. La madre Anna e il fratello Giovanni, le persone più amate, insieme alla nonna. Tutte scomparse, in cambio di un vuoto nel petto e nello stomaco che Vincenzo confesserà solo alla fine della storia.
Il padre, invece, al cui funerale non fa in tempo ad arrivare, e questo non è un caso, era la figura lontana che tornava chiassosamente due volte l’anno dalla Germania, rinnovando le stesse attese e le stesse delusioni: il regalo, sempre lo stesso; gli abiti bianchi della festa di San Giovanni macchiati dal sacrificio del maiale ucciso; l’assenza di un vero e proprio riconoscimento.
Più che le persone di Aquilana (con le quali non c’è confidenza: lo zio troppo invecchiato, la moglie troppo giovane per lui) saranno i luoghi a sciogliere la sua diffidenza iniziale: “Amava quella campagna. Lo riconciliava con un tempo lontano che non gli apparteneva più”. Il romanzo infatti narra un ritorno, non nostalgico, ma riconciliatorio. Una pace con il luogo d’origine che deve per forza riattraversare il dolore, aprire vecchie, dimenticate ferite .
Non è casuale, questa no, la ferita al fianco di Vincenzo (non diciamo come se la procura) che lo accompagnerà nel suo viaggio verso casa. Insieme ad un pianto che non lo coglie più di sorpresa. In quei pochi giorni, a dispetto della distanza emotiva dell’arrivo, si trova a piangere ben tre volte: la prima, nella sua stanza, la stessa di quindici anni fa, dopo aver ascoltato le registrazioni vecchie di vent’anni, miracolosamente intatte: “In quel silenzio , silenziosamente, cominciò a piangere”. La seconda volta sono singhiozzi disperati. Alla partenza invece lacrime di tenerezza per aver finalmente incontrato il suo Sé bambino.
Non raccontiamo come, perché si rovinerebbe il gusto delle ultime pagine della narrazione, intensissime. Diciamo solo che il romanzo si chiude con un simbolo e Vincenzo ha da poco ricordato un saggio su Jung. Non è infatti uno sprovveduto dell’anima; è già consapevole di essere un uomo senza radici “Non sapeva in cosa riconoscersi, in quale faccia, in quale colore del mare, del cielo, in quale suono del mondo”.
Neanche i tempi sono casuali: tutto avviene, ancora una volta, alla vigilia della festa di San Giovanni: l’attesa del padre (che rivive nella lettura del testamento), la rinnovata e non inattesa delusione. Come se il padre avesse aspettato per morire proprio quella data, per fare tornare il figlio negli stessi giorni dei suoi lontani ritorni, per fargli rivivere il caldo, la valle, gli odori, i sapori, di allora.
Forse è così. Non importa, perché ora Vincenzo è più libero di tornare da Serena, serenamente, con un amore più adulto, nell’appartamento che guarda i grattacieli di New York, dove ha faticosamente costruito le sue sicurezze. E non importa se ad Aquilana non tornerà più. Ci sarà la cicatrice sul fianco, e nell’anima, a ricordargli l’importanza delle origini che, se pure sofferte, val sempre la pena rievocare.
Titolo Ritorno nella valle degli angeli
Autore Carofiglio Francesco
Prezzo € 16,00
Dati 2009, 197 p., rilegato
Editore Marsilio (collana Romanzi e racconti)