Molti problemi di comunicazione interpersonale derivano dalla rigidità, ossia dall’incapacità di mutare atteggiamento in funzione di condizioni obiettive, di ristrutturare la percezione-concezione della realtà rispetto ad informazioni nuove.
La stessa struttura biologica umana, per quanto flessibile e plastica, presuppone una tendenza innata alla rigidità: il cervello, in particolare, si struttura in funzione del principio economico, per ottenere il massimo rendimento con il minimo impiego di energie. Gli schemi mentali, una volta costituiti, si stabilizzano, perdendo con il passare del tempo la propria malleabilità. Così, le nuove informazioni, perché riescano a destrutturare lo schema, modificandolo ed adattandolo alla realtà, devono avere caratteristiche di costanza, forza ed intensità tali da superare le capacità di assimilazione dello schema stesso. In caso contrario, lo schema agisce sulla percezione del soggetto, facendo in modo che le nuove informazioni siano trascurate, oppure considerate irrilevanti rispetto a quelle già depositate.
Allo stesso modo, i giudizi su una persona influenzano la percezione dei suoi comportamenti successivi, che possono essere falsificati, minimizzati o comunque considerati non abbastanza importanti da modificare lo schema cognitivo iniziale relativo alla persona in questione. Così, un primitivo giudizio diviene una certezza immodificabile.
E’ dunque possibile che, se non costantemente “nutrita”, la flessibilità caratteristica dell’essere umano divenga rigidità. Il risultato è una sorta di fondamentalismo e radicalismo delle convinzioni, che determina una comunicazione non aperta.
La mente chiusa ha un rifiuto radicale delle convinzioni opposte, un isolamento del proprio sistema di credenze da quelli rifiutati, una netta differenziazione tra l’uno e gli altri e, infine, una conoscenza più approfondita di ciò che giudica positivamente rispetto a ciò che rifiuta.
Classica espressione di rigidità mentale è la tendenza ad utilizzare spesso frasi del tipo “da che mondo è mondo…”, oppure “certi principi sono giusti perché sono sempre esistiti”, o ancora “la donna è sempre stata sottomessa all’uomo”. Tali espressioni vengono utilizzate quando sussiste nella persona una resistenza al cambiamento e una difficoltà a mettere in discussione le proprie idee o credenze. Il fatto che certi eventi esistano li rende, di per sé, giustificati e corretti. In ogni caso, perché si possa parlare di rigidità mentale, il ricorso ad espressioni stereotipate e generalizzazioni basate su principi deve avere una frequenza consistente e deve essere abbinato ad altri elementi.
Altra caratteristica della rigidità è il dicotomismo, ossia l’incapacità di vedere le sfumature che caratterizzano la realtà. Questo atteggiamento è di solito utilizzato per comprendere ed interpretare gli avvenimenti esterni ma anche per gestire il proprio modo di essere. Ad esempio, l’ideale di coerenza, quando non è addirittura patologico e non crea una frammentazione psicotica dell’identità individuale, può essere visto come un fine verso il quale tendere a tutti i costi: essere indipendenti dalle situazioni e dal mutare dell’esperienza diventa un valore positivo in assoluto. Non si accetta di essere oggi diversi da ieri, per non rischiare di perdere la tanto agognata coerenza interiore. Allo stesso modo, gli altri o vengono accettati incondizionatamente o vengono rifiutati. Se possiedono aspetti ritenuti positivi ed in linea con le proprie concezioni della realtà, si minimizzano le differenze rispetto al proprio modello di riferimento e si promuove un giudizio positivo in toto. Qualora invece possiedano aspetti negativi ed apparentemente incompatibili con la propria visione del mondo, si considerano e si valutano le persone esclusivamente in base a quegli aspetti e non ad altri diversi.
La persona tendente alla rigidità sopporta meno le ambiguità degli eventi e delle situazioni, ossia il fatto che questi possano essere interpretati in diversi modi, mentre un individuo flessibile mantiene più livelli di giudizio diversi ed anche potenzialmente incompatibili, senza necessità di deformare la realtà per farla adeguare ai propri schemi di riferimento.
Una persona flessibile ha una capacità comunicativa flessibile e non egocentrica, cioè orientata a comprendere l’altro nelle sue posizioni e non attraverso il filtro delle proprie concezioni pregiudiziali. Assumere il punto di vista dell’altro, in effetti, implica la capacità di afferrare e decodificare il suo codice linguistico, il substrato socio-culturale da cui proviene, i sistemi di fede e di valore su cui poggiano le sue asserzioni, e determina inoltre il considerare le circostanze empiriche al momento della comunicazione, ossia il contesto specifico nello spazio e nel tempo.
Per mantenere un atteggiamento flessibile e non egocentrico non basta la capacità, ma serve anche la disponibilità e l’intenzione di farlo. Bisogna saper usare un linguaggio comprensibile all’altro, ossia codificare il nostro messaggio considerando l’altro; inoltre, bisogna saper abbandonare per un attimo il nostro punto di vista per adottare quello dell’altra persona. Se non siamo disposti a fare questo, sarà difficile riuscire a comunicare realmente. La comunicazione sarà egocentrica, e saremo più impegnati a difendere le nostre convinzioni o, al massimo, a cercare di convincere l’altro, a competere con lui, piuttosto che ad ascoltarlo e a condividere qualcosa di noi stessi.
Molta parte della questione sta nel se e come comprendiamo il feedback che il ricevente ci invia in risposta alla nostra comunicazione. Si tratta di capire come gli altri decodificano il nostro messaggio. Quando non siamo in grado di recepire il feedback di ritorno non possiamo adeguare la nostra comunicazione all’interlocutore e, in ultima analisi, portiamo avanti un monologo mascherato da dialogo. Così può accadere che ci alteriamo quando ci rendiamo conto che gli altri non ci capiscono, soffriamo di questo e, se le nostre interazioni comunicative tendono ad essere costantemente spiacevoli, finiamo per isolarci e riduciamo al minimo la comunicazione e le interazioni sociali. Tale conclusione è piuttosto negativa, perché per ben comunicare bisogna allenarsi a farlo, anche quando significa sopportare i tentativi falliti.
Inoltre, molto spesso non si tratta di un’incapacità innata a comunicare, ma di una difficoltà emotiva a tollerare gli errori, le incomprensioni e le difficoltà che le relazioni con gli altri inevitabilmente comportano. E’ l’aspetto emotivo che ci trae in inganno, non le capacità cognitive o comportamentali.
Ammettere in partenza, emotivamente ed intellettualmente, che l’altro è per forza di cose diverso da noi, che agisce, pensa e si comporta in conformità a principi diversi dai nostri e altrettanto validi è il primo, ma il più importante, passo per comunicare efficacemente.
Questo è possibile, però, se non si ha bisogno di troppe barriere difensive. Se ho una bassa autostima, tenderò a giudicare immediatamente gli altri, ad innalzare barriere per non essere influenzato dagli altri o giudicato in maniera negativa. Altro elemento interessante, ed in parte collegato all’autostima, è la paura: se veramente accetto l’altro, vuol dire che mi metto in condizione di poter essere cambiato dall’altro, dalle sue idee; ma se la paura del cambiamento supera i limiti di una normale tendenza alla stabilità, tenderò ad evitare l’accettazione dell’altro, così da non sentire alcuna necessità di cambiare, quale che sia il messaggio che mi viene inviato.
La comunicazione egocentrica, che deriva dalla rigidità mentale, può esprimersi attraverso l’uso del linguaggio, specialmente in ambito lavorativo. Un linguaggio ermetico o specialistico pone una barriera fra gli individui, non vi è interesse che l’altro comprenda il messaggio, anzi, viene dato per scontato che esista un codice comune e condiviso. Questo tipo di comunicazione è tipico di chi si trincera dietro il proprio ruolo sociale, per evitare di scendere a compromessi con l’interlocutore e, in ultima analisi, di ricercare la comunicazione vera e propria. Tali individui non presentano e non condividono una parte di loro stessi, ma il loro status di potere.
Ecco un interessante esempio di comunicazione rigida.
A. Il voto di merito scolastico deve essere abolito.
B. I ragazzi, da che mondo è mondo, studiano solo per il voto, altrimenti non sarebbero motivati a farlo, la natura umana quella che è.
A. E’ appunto quello che bisogna cercare di cambiare.
B. Senza la minaccia di una punizione i ragazzi non imparano a rispettare l’autorità.
A. E’ necessario impostare il rapporto con i giovani in modo diverso, non autoritario, e questo può essere fatto solo cambiando la struttura dell’insegnamento scolastico.
B. Un insegnante deve farsi rispettare fin dall’inizio, se no i ragazzi si accorgono che è un debole e se ne approfittano.
A. Il problema è appunto quello di suscitare l’interesse senza usare metodi di disciplina autoritari.
B. Se non c’è disciplina, i giovani non imparano a rispettare l’autorità.
A. Non devono imparare a rispettare l’autorità, ma a stabilire rapporti di collaborazione tra loro e gli insegnanti.
B. I ragazzi sono sempre ragazzi, senza la previsione di premi o punizioni non studierebbero…anch’io da giovane preferivo giocare che studiare…
Si nota come B non ascolti A, ribadisce le sue affermazioni non argomentando, ma utilizzando stereotipie, generalizzazioni acritiche impermeabili all’esperienza, tautologie, luoghi comuni, ricorso all’esperienza personale che viene assolutizzata arbitrariamente.
Non si tratta di una divergenza di contenuto, ma di una divergenza di relazione: è probabile che il rifiuto della posizione altrui mascheri il rifiuto dell’interlocutore come persona. C’è infatti un “pensare contro”, un atteggiamento competitivo teso a far valere la propria opinione iniziale.
Il soggetto B si difende attraverso i principi generali, ma non accetta di metterli in discussione, essi sono validi proprio in qualità di principi. Inoltre, utilizza luoghi comuni che danno l’impressione di essere adatti a qualsiasi contesto, ma che nei fatti non aderiscono a nessuna realtà specifica.
Una delle tecniche migliori per superare la rigidità mentale e la comunicazione egocentrica è la metacomunicazione. Si tratta di discutere non sul contenuto della comunicazione, ma anche sulla modalità utilizzata per comunicare e, soprattutto, sugli aspetti relazionali che la comunicazione veicola. Con la metacomunicazione è possibile passare al piano della relazione che esiste fra gli interlocutori, superando il livello contenutistico specifico. Se questo non avviene, la comunicazione si ammala e può portare a gravi scontri e conflitti, poiché anche evitando di chiarirsi sul livello relazionale, questo continua ad esercitare i suoi effetti, finchè gli inevitabili screzi diventano ingestibili perchè giocati su un piano, quello contenutistico, diverso da quello in cui sono emersi.
In conclusione, per evitare di cadere nella trappola della comunicazione egocentrica bisogna costantemente analizzare il piano relazionale delle proprie comunicazioni, cercando di migliorarlo. Nessuna tecnica sarà valida se utilizzata da un individuo che non è abbastanza equilibrato e motivato ad instaurare buone relazioni con chi lo circonda. In sostanza, per saper comunicare bisogna essere una persona comunicativa e che non necessita di innalzare barriere difensive fra sé e gli altri. La volontà di procedere costantemente alla propria crescita individuale è il presupposto per fare ciò e per sviluppare le capacità, come l’equilibrio emotivo e psichico, che poi sono funzionali ad apprendere le migliori tecniche comunicative.