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Le parole sono la fortuna dell’uomo. Le parole si possono pronunciare e scrivere, e tutti noi abbiamo imparato prima a parlare e dopo a scrivere. Da zero a tre anni il nostro cervello organizza la maggior parte degli stimoli che provengono dall’ambiente esterno e lo fa utilizzando i suoni: quegli stessi che ci permetteranno, un giorno non troppo distante, di dichiarare a qualcuno il nostro grande amore. Graham Schafer, dell’Università di Reading, in Gran Bretagna, ha scoperto che l’apprendimento informale, ossia quello lontano dai banchi di scuola e che si verifica durante i primi anni di vita, è determinante per lo sviluppo mentale del bambino (Schafer G., 2005). Studi precedenti avevano evidenziato  che i bambini erano in grado di imparare solo quelle parole con le quali, in qualche modo, avevano concretamente a che fare, come: palla, tavolo, giocattolo, etc. Nell’indagine di Schafer, 52 genitori di bambini di nove mesi hanno giocato con loro, per almeno dieci minuti al giorno, quattro volte la settimana.
I genitori hanno utilizzato 48 immagini (sedie, pesci, frutta, etc.) raffigurate in 12 libri illustrati. Il gioco avveniva dando un nome agli oggetti, indicandoli anche con il dito, disponendoli poi secondo un ordine. L’esperimento, durato tre mesi, ha rivelato che i bambini, i quali nel frattempo avevano compiuto un anno e con i quali i genitori avevano giocato, mostravano segni di riconoscimento degli oggetti,  rispetto ad un gruppo che non aveva giocato con i genitori. La conclusione dei ricercatori è rivolta a tutti i genitori, i quali è bene che parlino ai loro figli fin dalla tenerissima età, proprio perché le parole vengono apprese anche quando non si riferiscono ad un contesto preciso e concreto.
Ai bambini come agli adulti, piace assai giocare con i suoni e le figure. Basti pensare alla televisione, al cinema e ad Internet. Proprio in tenerissima età si impara ad accostare immagini a suoni, sviluppando un apparato mentale che si definisce sistema telemetrico. Questo sistema funziona grazie all’azione contemporanea della vista e dell’udito. Esso ci permette di localizzare, in uno spazio e tempo precisi, qualsiasi oggetto-situazione e di stabilire la nostra posizione rispetto ad esso. Quante volte abbiamo chiamato con fare sonoro nostro figlio per dirgli di venire a tavola perché è pronta la “pappa”? Al di sotto del primo anno (e fino a circa tre anni) i bambini non comprendono precisamente il significato di una comunicazione complessa come: “Andiamo a tavola? È pronto!” Il verbo andare è irregolare. In questo caso inoltre è al plurale, anche se indica una esortazione singolare e rivolta al figlio. Ulteriore difficoltà è costituita dal fatto che non è facile capire che cosa significhi “andare a tavola”, ossia recarsi vicino ad un oggetto e compiere un insieme di azioni complesse utili alla nutrizione. Cosa comprende allora il bambino? Comprende il ritmo, l’andamento degli accenti nella frase, la velocità della pronuncia: in una parola i suoni del parlato che diventano musica.
I suoni stabiliscono una relazione fra coloro che li emettono e coloro che li ascoltano. Ancora prima di qualsiasi significato espresso con la voce, i cuccioli umani imparano a capire l’umore delle persone dai suoni emessi. Esistono infatti suoni duri, aspri, rigidi ed altri morbidi, melodiosi e flessibili. Inoltre, impara a riconoscere il timbro della voce materna distinto da quello della zia. Comincia persino a capire in quale modo dovrà parlare al babbo per ottenere quel giocattolo che tanto lo diverte. Senza saperlo, ognuno di noi “fa musica” fin dalla nascita (per essere ancora più precisi, fin dal concepimento), perché frequenta costantemente il mondo dei suoni e della visione. Siamo tutti un po’ compositori di musica e immagini, perché cresciamo in un mondo sonante ed immaginario, che a me piace definire paesaggio sonoro-visivo, con il quale, e per tutta la vita, stabiliremo un affettuoso rapporto. Peccato che,  crescendo, ci faranno credere che solo alcuni di noi sono musicisti. Ma questa è un’altra storia, e ne riparleremo un’altra volta.

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Alessandro Bertirotti

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