fbpx

Scuola

La Solitudine del Mondo Giovanile

“Ognuno sta solo sul cuore della Terra…” (S. Quasimodo, 1936), “La lanterninosofia è la metafora della solitudine dell’uomo costretto a convivere con il relativismo gnoseologico” (L. Pirandello, 1903) … “Una capra, sazia d’erba, belava, era sola sul prato” (U. Saba, 1909-10) …
Questi sono i messaggi ancora attuali che, dopo più di ottant’anni, autori come Quasimodo, Pirandello, Saba e, in genere, poeti e prosatori trasmettono agli uomini del XXI secolo, facendo riflettere su problemi di ieri, di oggi, di domani. “Come placare la lotta dei frammenti tra di loro? Come ricomporre l’unità distrutta?” (G. Thibon, Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale, 1973)
Il Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), che, dal 1964, svolge una costante e articolata attività di ricerca, consulenza e assistenza in campo socio-economico, nell’interpretare i fenomeni di trasformazione della società e le spinte all’innovazione, ha cercato, in particolare, di far luce sull’odierna condizione dei giovani (La solitudine del mondo giovanile, 1994). I dati statistici registrati dall’istituto di ricerca socio-economica (Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973) e le connesse annotazioni sulla situazione del paese nel 1994 hanno rilevato come “la grande maggioranza dei giovani viva di buon grado in famiglia, senza, però, condividerne mondo sentimentale e valori morali”. Che fare? E’ possibile instaurare rapporti di reciproca fiducia tra genitori e figli? L’adolescente deve rifiutare aprioristicamente la collaborazione con papà e mamma, “tuffandosi” tra le braccia del coetaneo con ping pong di e-mail, sms o telefonate disperate ai cellulari? Da chi un ragazzo può e deve ricevere un sollievo alla propria angoscia?
La questione è delicata e la si deve chiarire, chiedendosi, per esempio, come mai il 70% degli intervistati affermi che “solo con gli amici possa parlare liberamente” (Censis, ibidem) e, soprattutto, se questa situazione “sia imputabile unicamente al fenomeno generazionale” (Censis, ibidem). La conflittualità tra genitori e figli nasce dal bisogno di autonomia degli adolescenti che, all’interno della famiglia, si esprimono attraverso diverse forme di comunicazione non solo “verbali”, sottolineate da silenzi, irascibilità, aumento dei conflitti, provocazioni, ma, soprattutto, “non verbali”, rimarcate dal modo di vestire e di atteggiarsi, dal rapporto con il cibo, dalle modalità di gestire gli spazi personali, dal rifiuto delle regole, dalle nuove richieste ed esigenze che rischiano di pregiudicare in modo drastico gli stili educativi all’interno della micro cellula sociale.
Gli esperti hanno raccolto le risposte–tipo degli adolescenti, riscontrando come un buon numero di essi ritenga che solo un coetaneo possa avvertire la stessa impotenza di fronte a problematiche simili; le riflessioni sembrano l’echeggiare di teorie-ritornello: “http:\\/\\/psicolab.neta è veramente nostro finchè non lo dividiamo” (C. S. Lewis, Pungoli… aforismi… apoftegmi…, 1950-1956), “le lacrime più amare sono quelle versate nella solitudine” (J. A. Ginguet, 1830-1865), “chiunque voglia conquistare la gioia la deve condividere,… la felicità è nata gemella” (G. G. Byron, sentenze, 1808– 1824). Osservazioni mature, dunque, supportate da analisi approfondite. Voler bene a un amico, talvolta, significa diventarne l’ombra, “restringere gli orizzonti” (Anne of Green Gables, Anna dai Capelli rossi, 1908) e condizionare inconsciamente molte scelte, persino quelle degli studi superiori o degli indirizzi universitari; “anche se il sentiero che hanno davanti è più piccolo, sentono, però, che spunteranno i fiori della serenità perché i ragazzi sentono di poter confidare in un’amicizia su cui fare pieno affidamento” (Anne of Green Gables, ibidem).
Le loro sono motivazioni propositive che li aiutano a crescere bene, a coltivare nel cuore la riconoscenza, la comprensione e il perdono; essi capiscono non solo che “le offese ricevute dall’amico si devono scrivere sulla sabbia e i suoi benefici sul marmo” (Proverbio arabo), ma, addirittura, che “per un beneficio piccolo come una goccia d’acqua, si deve restituire all’amico una sorgente spumeggiante” (Proverbio cinese). “Certo, c’è sempre una curva e una cosa troveranno dietro, ma dentro di sè hanno la certezza di aver trovato la persona giusta” (Anne of Green Gables, ibidem) che potrà guidarli o con la quale potranno confrontarsi, una persona alla quale sono legati non solo dal sentimento, ma anche dalla ragione. Percepiscono, insomma, che, percorrendo questo sentiero insieme al loro nuovo “fratello”, apriranno il contatto con persone meravigliose a cui confidare la magia del primo bacio, le pene segrete, la prima “calia” a scuola, il fumo della prima sigaretta, il primo bicchierino trangugiato in discoteca … “Come potrebbe essere vitale, d’altra parte, una vita che non riposa nel mutuo affetto con un amico? <…> Che gran frutto verrebbe dalla buona fortuna se non ci fosse qualcuno con cui dividerla? Non vi deve essere sazietà nell’amicizia; essa deve essere come quei vini che sopportano l’invecchiamento” (Cicerone, Laelius de amicitia)? Mamma e papà, però, sono proprio irremovibili? Non approverebbero? Non capirebbero? I ragazzi provano ad aprirsi con loro? Cercano di far riflettere gli adulti sul proprio punto di vista? E, di contro, è certo che l’amico/a del cuore dia consigli giusti e sani? In tanti si professano devoti alleati, ma speranze, illusioni, utopie, chimere coltivate insieme “atterrano” talvolta nell’aeroporto grigio della realtà, “vulgare nomen amici est, rara fides” (Fedro, Fab., 3, 9, 1).
Se, da un lato, infatti, è vero che “l’amicizia non nasce dal bisogno o dall’interesse, ma dall’amore, <…> più per inclinazione dell’anima che per riflessione sull’utilità che essa potrebbe avere” (Cicerone, ibidem), dall’altro, purtroppo, la vita apre spesso agli occhi del giovane una realtà amara fatta di tradimenti, accuse ingiustificate, voltafaccia clamorosi. E, allora, su quale spalla piangere? “La cattiva fortuna … sarebbe … difficile da sopportare, senza uno che ne soffrisse anche più di te…” (Cicerone, ibidem). Ecco, rientrano in scena i “grandi esclusi”, papà e mamma, gli “amici veri” capaci di assicurare quel sostegno che essi inconsciamente richiedono ai genitori riguardo alle loro scelte e ai loro comportamenti, di instaurare una comunicazione funzionale posta a un livello condiviso, di mantenere un atteggiamento di negoziazione, di rispettare i loro punti di vista e le loro reali esigenze attraverso un ascolto empatico e non giudicante che distanzia da imposizioni troppo rigide. Le piccole menti, con gli occhi luccicanti, un po’ per il pianto, un po’ per la gioia di averli “riscoperti”, capiscono di non poter ignorare il supporto psicologico e morale dei “loro vecchietti”, quelli che non li tradiranno mai. Essi, insomma, in virtù di un coinvolgimento attivo e concreto, riapprezzeranno le loro radici e comprenderanno che devono rispettare con profonda benevolenza i loro “matusa”; è con loro che devono relazionarsi, è in loro che devono cercare l’hic et nunc dell’esistenza, è in loro l’amore incondizionato sempre pronto a donare con affetto, calore, amore.
Non è possibile preconizzare una piena realizzazione di sé puramente individuale né è realistico sognare un astratto amore universale che non si traduca prima in apertura e prossimità con la persona più vicina. Si inizia sempre “a due a due” (Paul Éluard, Non verremo alla mèta ad uno ad uno, 1946) e, solo così, la solidarietà concreta si potrà propagare nel mondo. “Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti tempi, <…> fa’ che ci aiutiamo l’un l’altro a portare il peso della nostra esistenza” (Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763). “Non si garantisce, infatti, la salvezza di un singolo o di una parte a discapito del resto, la salvezza o sarà realtà globale e onnicomprensiva o non sarà <…> Dalle crepe dell’edificio dell’antropocentrismo moderno, dunque, si fanno luce percezioni della non autosufficienza e della fallibilità umana; la coscienza della limitatezza, a sua volta, costituisce i fondamenti della speranza possibile in quanto essa apre alla compassione reciproca, escludendo tendenzialmente il dis-inter-esse, il rifiuto ad agire in favore dell’altro, a entrare in relazione e comunione con l’altro” (L. Manicardi, La speranza della salvezza, 1995). A chi dare, perciò, la chiave della propria anima? All’amico o alle figure genitoriali? Anche se la meta verso cui si tende non è la stessa per tutti e, a volte, è incerta e sfuggente, il principio a cui attenersi per trovare una soluzione costruttiva al disagio giovanile sta nel connubio delle due forze, nella disponibilità a “uscire dalla prospettiva soffocante dell’individualismo, di entrare e rimanere in comunione con la vita in tutte le sue manifestazioni” (L. Manicardi, ibidem).

Matilde Perriera

Matilde Perriera