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Cultura

Soft Skills: competenze di vita

Sentiamo parlare sempre più spesso di “empatia” e di “intelligenza emotiva” e più propriamente di soft skills

Perché se ne parla così tanto e a cosa servono le Soft Skills?

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) le ha definite come “competenze di vita” ovvero ciò che serve per affrontare la stessa in maniera efficace. Esse rappresentano uno dei quattro pilastri delle competenze personali, laddove per competenze personali intendiamo:

  • CARATTERISTICHE PERSONALI : quelle che si riferiscono alla nostra fisicità, al carattere, al talento, ai pensieri;
  • ATTEGGIAMENTO: quindi il modo in cui noi rispondiamo agli stimoli ed alle situazioni che viviamo e che variano rispetto alle nostre credenze ed alle nostre convinzioni;
  • HARD SKILLS: tutte quelle competenze acquisibili attraverso un lavoro o dei percorsi solitamente certificabili; ci si riferisce quindi alle professionalità  che sono osservabili e misurabili;
  • SOFT SKILLS: si tratta delle abilità sociali che dimostrano la nostra efficacia nelle relazioni, ovunque esse si instaurino.

Quindi, cosa e quali sono queste competenze?
Si tratta, in sostanza, di abilità che, se apprese ed allenate, consentono di VIVERE MEGLIO; sono suddivise in 10 punti:

  • Consapevolezza di sé
  • Gestione delle emozioni
  • Gestione dello stress
  • Comunicazione efficace
  • Relazioni efficaci
  • Empatia
  • Pensiero creativo
  • Pensiero critico
  • Prendere decisioni
  • Risolvere problemi

 

 e raggruppate in 3 aree:  

EMOTIVE – consapevolezza di sè, gestione delle emozioni, gestione dello stress;
RELAZIONALI – empatia, comunicazione efficace, relazioni efficaci;
COGNITIVE – risolvere i problemi, prendere decisioni, pensiero critico, pensiero creativo.

Le Skills EMOTIVE

La CONSAPEVOLEZZA DI SE’, cioè la conoscenza di noi stessi, dei nostri pensieri, del nostro corpo, delle nostre emozioni. Renderci costantemente conto di tutto ciò che accade “dentro di noi”. Affinché questo sia possibile, è necessario che ci sia una sorta di apertura verso noi stessi sospendendo qualunque forma di giudizio e praticando accettazione. 

Il nostro respiro

Concentrarci sul nostro respiro è uno dei momenti di partenza della maggior parte delle pratiche meditative, focalizzando l’attenzione con l’aria che entra ed esce attraverso di noi. Praticando quest’attenzione focalizzata sul respiro, ci si sposta anche sui nostri pensieri, senza giudicarli o respingerli. Serve a comprendere quali sono utili o meno alla nostra vita; quanti hanno motivo di esistere realmente e quanti sono assolutamente inefficaci; fino ad arrivare alle reazioni del nostro corpo davanti a ciò che ci accade.  La conoscenza di noi stessi è uno dei nodi più importanti perché ci consente di creare il nostro progetto di vita, un progetto che sia in linea con tutto il nostro essere; non è un caso, infatti se, è il primo pilastro dell’autostima; e non è un caso se Daniel Goleman, nel suo Intelligenza emotiva (1996), a proposito della stessa, considera la consapevolezza di sé proprio tra i cinque elementi che la definiscono. Per consapevolezza di sé intendiamo competenza emotiva intesa come riconoscimento delle proprie emozioni e dei loro effetti, l’autovalutazione accurata, ovvero la conoscenza dei propri punti di forza e dei propri limiti e la fiducia in se stessi cioè la sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità.

Partendo dalla conoscenza di noi stessi entriamo nella seconda categoria, relativa alla GESTIONE DELLE EMOZIONI. La conoscenza delle emozioni, la loro gestione e la motivazione di sé stessi rientra in quel particolare tipo di intelligenza definita intrapersonale, attraverso cui è possibile poi sviluppare quella interpersonale e caratterizzata dal riconoscimento delle emozioni altrui ed alla gestione delle relazioni, arte che si acquisisce dopo aver lavorato sui punti precedenti. 

Le emozioni rappresentano il senso del nostro essere

La radice del termine emozione è il verbo latino “moveo” ovvero muovere, con l’aggiunta del prefisso “e” (movimento da) per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. La Yale University ha stimato che ciascuno di noi prova circa 500 emozioni al giorno ma di cui ci rendiamo conto solo in parte. Scopo della nostra capacità di riconoscerle è proprio quelle di saper gestire tutte quelle di cui ci accorgiamo consapevolmente, perché se è vero che le emozioni ci mettono in contatto con gli altri, è anche vero che la gestione efficace delle nostre relazioni, dipende proprio dalla nostra capacità di saperci gestire. Provare rabbia o ira e sferrare un pugno o compiere un gesto inconsulto, non sono di certo comportamenti efficaci in cui si è in grado di gestire le emozioni. 

La GESTIONE DELLO STRESS è un’altra competenza di carattere emotivo. Quante volte nella vita ci siamo sentiti “stressati”. Se ci soffermiamo un attimo sul termine stesso è probabile che il nostro pensiero ci riconduca ad una sorta di appesantimento di tutto il nostro essere, quasi come se fossimo esausti. Per via del lavoro e di tutte le responsabilità che ci sovrastano o per via di alcune dinamiche familiari e relazionali che non ci consentono di vivere serenamente e così via. Che succede allora? Accade che probabilmente non siamo in grado di gestire le situazioni che viviamo con consapevolezza e che assorbiamo il mondo circostante in maniera dannosa dal punto di vista mentale e fisico. Non è un caso, infatti, se molte delle malattie psicosomatiche sono il risultato di grandi situazioni di stress perpetuato. 

I pensieri stressanti

Lo stress, si attiva perché “andiamo in fissa” su alcuni pensieri a cui diamo spazio affinché si ripetano continuamente. La vita di ciascuno di noi gira attorno ai pensieri, o meglio, i pensieri sono perennemente intorno a noi, ma quando questi sono negativi ed attivano dinamiche altrettanto negative, bisogna che si mettano in gioco le nostre abilità. La nostra mente opera di continuo e se non impariamo noi a gestire lei, l’unica cosa possibile sarà il contrario, saranno i nostri pensieri a dominarci. C’è una fase di ALLARME che ci mette in guardia; qualcosa, fuori o dentro di noi, sta accadendo e quando questo accade, molti di noi RESISTONO a questo allarme, come se nulla stesse accadendo. Quindi assorbono e assorbono, nell’indifferenza più totale, fino ad arrivare ai massimi livelli di sopportabilità; chi dice “sono fortemente stressato” è esattamente in questo secondo stadio che è il preludio alla fase dell’ESAURIMENTO che porta ad un vero e proprio collasso che colpisce gli organi più deboli. Arrivare a questa fase equivale a raggiungere un punto di non ritorno, punto in cui bisogna che ci sia un intervento di aiuto. 

Una disquisizione più approfondita, rispetto agli altri temi, e doverosa, è quella che riguarda il nostro modo di COMUNICARE. Già dai tempi antichi, il fenomeno della comunicazione è diventato oggetto di studio di diverse discipline proprio perché la comunicazione ci permette di entrare in con-tatto con gli altri. Creare relazioni significative è uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano. Questo è esattamente il motivo per cui si ritrova nella lingua latina in cui “cum” più “humus” significa METTERE IN COMUNE. L’alternativa che preferisco è “cum” e “munus” ovvero, DONO RECIPROCO e questo proprio perché nella comunicazione c’è chi offre e chi riceve. 

Cosa ci scambiamo?

Bisogni, stati d’animo, pensieri, emozioni, idee e molto altro, e proprio per tale ragione la comunicazione è utile non solo per dialogare ma anche per apprendere, ottenere, dare e ricevere informazioni e così via. Dunque, possiamo definire la comunicazione come il processo attraverso il quale un emittente trasferisce un significato al ricevente. Dobbiamo chiederci, allora, quando la comunicazione è efficace? Quando siamo in grado di inviare il messaggio esattamente come vorremmo e facendo in modo che risponda alla nostra intenzione di partenza. 


IL SIGNIFICATO DELLA COMUNICAZIONE STA NELLA RISPOSTA CHE SI RICEVE

Questo è uno degli assiomi della comunicazione. Cosa significa? Significa che per avere una comunicazione efficace bisogna considerare i feedback. Se io esprimo un concetto e l’altro me lo rimanda in un altro modo, io ho la possibilità di comprendere se la mia intenzione è giunta a destinazione in maniera corretta. Quindi il feedback serve ad evitare “letture della mente” e false interpretazioni. Inoltre, bisogna fare un cenno alla comunicazione non verbale e paraverbale. Immaginiamo una piramide all’interno della quale distinguiamo tre tipi di comunicazione:

 

  • VERBALE: quello che dico, le parole ed i contenuti, 7%
  • PARAVERBALE: come lo dico (tono, frequenza, ritmo) 38%
  • NON VERBALE: viso e corpo (postura, respiro, gesti, colorito) 55%

 

Pare evidente che la percentuale che pesa maggiormente, non è  il cosa dico, quanto piuttosto come lo dico. Vi è mai capitato di incontrare un amico e chiedergli “come stai?” e di fare attenzione alla sua risposta? No, non parlo delle parole ma di quello che ha accompagnato le parole, ovvero il tono della voce, l’espressione del suo viso o la sua postura? Se qualcosa “non vi è tornato” significa che c’è stata incongruenza tra quello che ha detto e come lo ha detto. Significa che rispondere “va tutto alla grande!” abbassando lo sguardo o stando ricurvi su sé stessi o ancora utilizzando un tono di voce basso assumendo una espressione facciale tutt’altro che felice, lascia passare un messaggio diverso da quello che il nostro interlocutore dice con le parole. Questa distonia non è comunicazione efficace. Quindi la comunicazione è efficace anche quando vi è uno sposalizio naturale tra le tre percentuali. 

Essere brevi e concisi

Altro fattore della comunicazione efficace è la sinteticità che è importante per trasferire la rappresentazione mentale, il significato dal mittente al destinatario. Tutto ciò che è in più rispetto a quanto sufficiente a tale trasferimento dell’esperienza da A a B, non solo potrebbe essere superfluo ma addirittura potrebbe generare confusione nell’interlocutore. Se io chiedo “come stai?” e la mia amica mi racconta che sta bene ma per dirlo mi racconta il perché, tipo, “sai, ieri sono stata ad una festa ed ho conosciuto una persona bellissima che potrebbe aiutarmi a pubblicare il mio ultimo libro…”, quasi certamente mi porterebbe a perdermi

E ancora, l’intenzione. Prima di esprimerci, bisogna che ci si chieda quale è la nostra intenzione. Va da sé che se la mia intenzione è litigare con mio marito, probabilmente non avrò difficoltà ad esprimere in maniera congruente (quindi anche a livello di comunicazione paraverbale e non verbale) il mio pensiero, anche perché se provo rabbia e mi faccio guidare da questa emozione, il mio obiettivo sarà garantito! 

E le nostre emozioni?

Ponendo un attimo l’attenzione sulle emozioni, è molto importante fare attenzione al nostro stato d’animo mentre comunichiamo. Torniamo alla situazione con mio marito. Se la mia intenzione è litigare, anche perché sono fortemente arrabbiata, allora nessun problema; diverso è il discorso se la mia intenzione non è discutere ma cercare di fargli comprendere un mio punto di vista. Se in quel momento io non sono dello stato d’animo adatto, perché appunto sono in preda alla rabbia, allora la mia comunicazione potrebbe risultare inefficace; in casi come questi bisogna lavorare prima sullo stato d’animo in maniera preventiva. In questi casi e prima di inviare il nostro messaggio, potrebbe risultare utile prendersi un momento per sé stessi.

Pronto, chi parla?

 Ho esordito dicendo che nel processo comunicativo c’è chi parla e chi ascolta, o meglio, chi dovrebbe ascoltare. Uso il condizionale perché l’ascolto è piuttosto sottovalutato nel processo, quando invece rappresenta un fattore di cruciale importanza. Se io parlo con qualcuno e questo qualcuno contemporaneamente verifica la quantità di messaggi che gli sono pervenuti sul cellulare, è chiaramente visibile che non è poi molto interessato a me. Se è vero che nella comunicazione riveste un ruolo importantissimo il come comunichiamo, allora quel come va osservato. Parliamo quindi di osservazione attenta ed ascolto attivo, due componenti che dovrebbero andare rigorosamente a braccetto ma che spesso litigano! Se io ti ascolto, vuol dire che ti osservo, attentamente, senza fare altro contemporaneamente. Questo proprio perché, se è molto più importante la comunicazione non verbale e paraverbale, allora saranno proprio queste due comunicazioni che ci invieranno messaggi. Quindi bisogna essere completamente sull’altro per comprenderlo.

E il silenzio?

Si tratta di qualcosa che, a mio parere, e al di sopra di ogni cosa rende perfettamente la nostra idea di comunicazione in alcuni momenti della nostra vita: il silenzio; uno strumento potentissimo che manda chiari segnali di stati d’animo e pensieri che a volte connotano le nostre giornate.

Comunicazione efficace è presupposto fondamentale per la RELAZIONE EFFICACE

Entriamo ora nella sfera delle competenze relazionali, partendo dall’EMPATIA. Il termine deriva dal greco empátheia, derivato di èn, “in” e pàtheia, “essere affetto, soffrire”; significa “mettersi nei panni dell’ altro”e consiste nel riconoscere le emozioni dell’altro come se fossero proprie, calandosi nella realtà altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e, appunto, “pathos”, il “sentire con emozione”. L’empatia è parte del nostro corredo genetico, e dunque tutti nasciamo empatici ma con il tempo, la “perdiamo per strada”. E’ anche vero che è una condizione essenziale per lo scambio educativo, ma affinchè si possa entrare in empatia con l’altro, è indispensabile l’assenza di giudizio. 

Cosa serve per allenare l’ Empatia

Esistono 9 caratteristiche comunicative che favoriscono lo sviluppo dell’empatia all’interno delle relazioni umane:

  1. RENDERSI CONTO DELL’ESISTENZA DEGLI ALTRI: significa accorgersi che qualcuno è di fronte a noi, accorgersi che l’altro ha bisogno della nostra completa e disinteressata attenzione allo scopo di osservare attentamente e non solo guardare;
  2. SENTIRSI DISPONIBILI VERSO GLI ALTRI: dopo essersi resi conto che l’altro esiste, comprendere anche il bisogno dell’altro cercando di “lasciar passare” la nostra vicinanza;
  3. ESSERE APERTI: significa “stare” davvero nell’altro, attraverso le nostre parole di vicinanza sempre che accompagnate dai nostri gesti e da tutta la comunicazione non verbale;
  4. SAPER GIOCARE E SAPER DIVERTIRE: elementi indispensabili nella relazione, soprattutto con i bambini ai fini dell’apprendimento; il “gioco” riveste un ruolo fondamentale per arrivare laddove altrimenti non si giungerebbe;
  5. MANIFESTARE IL CORAGGIO: ovvero quello che ci rende capaci di manifestare le nostre idee, i nostri pensieri, le nostre intenzioni, facendolo nel modo più profondo e senza prevaricare sull’altro;
  6. SAPER GUARDARE NEGLI OCCHI: perché è proprio il contatto oculare che ci mette in relazione con l’altro, è il ponte che ci consente di arrivare all’altro nelle relazioni; saper guardare è anche avere il coraggio di farlo senza timore alcuno;
  7. SAPER COMUNICARE ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO TATTILE: è di fondamentale importanza il contatto, quindi tutto ciò che possiamo fare per entrare in con-tatto con l’altro; fare una carezza, incrociare la mano, dare una pacca sulla spalla e molto altro;
  8. PRATICARE L’ASCOLTO ATTIVO: che non significa ascoltare l’altro facendo altro ma “stando” sull’altro, senza distrazione alcuna;
  9. SAPER OFFRIRE PAROLE QUALIFICANTI: affinchè si possa usare in maniera consapevole il DONO della parola per valorizzare l’altro o semplicemente standogli accanto.


Il
PENSIERO CREATIVO, laterale, divergente. 

Einstein sosteneva che “La creatività è l’intelligenza che si diverte” ed effettivamente è proprio di questo che parliamo. Siamo abituati a modelli stereotipati che ci aiutano a trovare la soluzione migliore, la più logica. Trovata quella, ci si ferma. La creatività invece va oltre, lavorando ad una ristrutturazione dei modelli reali in modo da trovare una serie di altre possibili alternative che non è detto servano alla risoluzione del problema ma che stimolano alla ricerca continua. Questo, soprattutto con i ragazzi è di supporto all’allenamento dello spirito critico che alimenta indirettamente l’autostima, perché, in qualunque tecnica di stimolazione al pensiero laterale, non esiste giudizio. Non esistono proposte “stupide” o “inutili” o “inaccessibili” o altro. Esistono solo proposte, con lo scopo di trovarne il maggior numero possibile in un tempo stabilito a priori. Il pensiero laterale, differentemente dal convergente, si attiva anche in assenza di una direzione prestabilita e non è necessario seguire un filo, ma si possono anche saltare alcuni passaggi; il pensiero verticale segue le definizioni e le classificazioni, il laterale no. L’antropologo Rolando Toro Araneda sosteneva che “Noi siamo gli artisti e l’opera è la nostra vita”; in riferimento soprattutto ai bambini risulta molto utile aiutarli e supportarli nello sviluppo del pensiero laterale; evitare di indirizzarli su cosa fare e come fare li aiuta ad orientare le scelte in maniera autonoma e non automatica. 

Il PENSIERO CRITICO

consiste nel saper analizzare fatti ed informazioni in maniera oggettiva. Vengono in supporto le domande Socratiche. Pensate ad esempio ai social e a tutto quello che vediamo ed ascoltiamo. Quanto di quello che vediamo ed ascoltiamo lo analizziamo in maniera oggettiva? Una magica crema antirughe o le pasticche magiche che ci consentono di perdere tanto peso in pochi giorni ne sono un esempio classico. Insomma, ci fidiamo, senza sapere bene se effettivamente ci si debba fidare o meno. Dovremmo riflettere e raccogliere delle informazioni prima di cadere nelle numerose trappole di cui siamo spesso invece protagonisti. Questo discorso non vale solo per la sponsorizzazione di prodotti “magici”. Pensiamo ad esempio ai notiziari; quante delle notizie che ci giungono sono effettivamente reali? Spesso e volentieri, forse per pigrizia, le diamo per buone senza porci domanda alcuna. Il problema è che spesso le notizie, soprattutto in questo periodo, caratterizzato dalla presenza del Covid, sono spesso negative; succede allora che l’assenza di spirito critico che ci spinga ad analizzare le notizie, ci porta ad “assorbirle” in quanto tali con tutte le conseguenze che ne potrebbero derivare. 

DECISION MAKING

La nostra vita è il risultato delle nostre decisioni. Ogni giorno, costantemente siamo destinati a scegliere, dalla cosa più semplice a qualcosa di più complesso. Basti pensare a quando andiamo a fare shopping o quando siamo dal parrucchiere o al momento in cui andiamo a fare la spesa. Ma queste sono scelte quotidiane che non implicano gravi conseguenze laddove non si sia proceduto per la scelta migliore. Ma se scegliamo un lavoro che non ci piace solo perché qualcuno ce lo ha consigliato? O se decidiamo di restare con un uomo che non amiamo più? Si, lo so, sto esagerando ma può succedere! E sono questi i casi in cui, ad esempio, ci troviamo a vivere la vita degli altri e non la nostra; prendere decisioni del genere comporta rischi non indifferenti. Prendere decisioni è un po’ come andare in palestra, dobbiamo allenarci nel prenderle; maggiore è la frequenza con cui prendiamo le decisioni e minore sarà il timore di prendere la strada per cui abbiamo deciso.

Il cervello di pancia

Nelle nostre decisioni, ciò che spesso ci viene in soccorso è il nostro cervello di pancia…quello, difficilmente sbaglia! Quando magari siamo indecisi e ci ripetiamo: “Si, è la scelta più giusta, me lo sento” è seguire le nostre sensazioni. Le nostre scelte sono guidate dalle nostre credenze, dalle nostre convinzioni, dai nostri valori, le colonne portanti della nostra vita. Se, ad esempio, tra i miei valori c’è l’amicizia, io non mi sognerei mai di tradire una persona a me cara, in una situazione in cui fossi portata a decidere se tradirla o meno. Può comunque capitare di sbagliare, laddove “sbagliare” significa semplicemente rendersi conto che la scelta fatta non è la più efficace. Che succede allora? Pazienza, accoglieremo l’errore che effettivamente non è tale ma è una grandissima opportunità, un meraviglioso insegnamento grazie al quale crescere e migliorare sé stessi. Questo accade perché ci sono esperienze che si realizzano subito ed esattamente come le abbiamo immaginate, ed altre meno. 

E giungiamo al PROBLEM SOLVING.

Esattamente come nel caso del decision making, anche in questo caso si fa riferimento ad una capacità, quella di risolvere i problemi man mano che si presentano nella nostra vita in maniera tale da affrontarli in maniera costruttiva. Avere un problema, crogiolarsi nello stesso e lamentarsi senza darsi la possibilità di risolverlo, non solo significa non risolverli ma potrebbe portare ad andare sotto stress. Si tratta di un vero atteggiamento mentale e, quanto maggiore sarà l’allenamento  e tanto maggiore sarà la possibilità di sviluppare questa capacità, con l’obiettivo di superare gli ostacoli.

 

Le fasi

Per dire “abbiamo un problema” vuol dire che dobbiamo sapere che esiste un problema e quindi la prima fase è la SCOPERTA ovvero il riconoscimento del problema. Spesso ci accorgiamo che “qualcosa non va” ma non è detto che questa accortezza serva a valutare questo “qualcosa” come un vero e proprio problema. Per rendere l’idea, tornando all’esempio del fare un lavoro che non ci piace, dire che il nostro lavoro non ci soddisfa e continuare a lamentarci, non significa necessariamente avvertire che esiste un vero e proprio problema ma potrebbe significare solo avvertire un disagio. Quindi esiste un filo sottile tra l’avvertire un disagio e invece leggerlo come un vero e proprio problema. Perché si possa comprenderlo, bisogna tornare alla consapevolezza di sé, al nostro modo di pensare e di agire alle nostre sensazioni e “tirare le somme”, proprio quando sentiamo quel “qualcosa che non va”. Quindi bisogna DARSI TEMPO. Non sempre i problemi possono essere risolti in tempo reale; spesso bisogna darsi tempo, a volte giorni, altre volte anni. Bisogna rivolgere tutte le nostre energie e la nostra attenzione sulle infinite possibilità di risolvere il problema una volta che si presenta. Dunque arriva la VALUTAZIONE DELLE POSSIBILITA’ e di tutte le conseguenze, nel bene o nel male, che la risoluzione del problema porterà con sè. Una volta valutate le possibilità, si SCEGLIE quella da attuare e conseguentemente si procede a stilare un PIANO D’AZIONE. Facciamo un esempio.  Mi accorgo che il mio lavoro non mi piace più; mi trascino un giorno dopo l’altro, rifletto continuamente sulla mia situazione che non mi soddisfa più come un tempo. Inizio ad avvertire un lieve disagio ma poi un giorno accade qualcosa che mi fa pensare che davvero non è più il posto per me, perché ogni giorno diventa un problema recarmi al lavoro. Quindi inizio a riflettere sul da farsi pensando alle diverse possibilità. Posso lasciarlo? O devo trovarne prima un altro? Di quanto tempo ho bisogno? Quali sono i pro e i contro? Come faccio a pagare le rate del mutuo? E così via. Una volta valutati i pro e i contro si sceglie per la soluzione ottimale. Esempio: ok ho deciso che lascio questo lavoro ma prima devo cercare di trovarne un altro. Inizio a preparare il cv e ad inviarlo in giro. La decisione, dunque è presa. Quale è il rischio? Il rischio è che le parole ed i pensieri restino tali. Per evitare questo, sempre che la decisione di lasciare il lavoro la si desideri 10, in una scala da 1 a 10, devo mettere in atto un piano. Obiettivo principale è lasciare il lavoro. Per farlo devo cercarne un altro, quindi questo secondo obiettivo che parrebbe essere secondario, diventa effettivamente primario. Quindi chiedersi: cosa mi serve? Quanto tempo mi devo dare? Scrivere dei piccoli micro-obiettivi mi serve per tenere d’occhio il mio operato evitando di perdermi nel nulla e mi serve per tenere d’occhio il tempo. Se mi sono data due mesi di tempo per lasciare il lavoro, io devo monitorarmi. Un pò come se dovessimo organizzare la settimana; fare la lista della spesa, pagare la bolletta, andare dal medico e così via. Parliamo della nostra vita, della nostra esistenza e quindi, più che mai, bisogna progettarla affinchè risponda esattamente ai nostri desideri.

Questo breve escursus serve a porre l’attenzione su quello che, oggigiorno, le aziende richiedono. Sul campo, qualunque sia il nostro tipo di lavoro, le hard skills, si imparano con il tempo. Ciò a cui si dà molta attenzione sono però le abilità sociali. Questo perché io posso avere un’azienda con un team eccezionale dal punto di vista delle competenze ma se tra loro, i dipendenti, non sanno comunicare efficacemente, o si bloccano davanti a qualsiasi problema, o il leader è tutt’altro che un leader, prima o poi l’azienda incontrerà seri problemi. 

Se poi allunghiamo un po’ di più lo sguardo e pensiamo che queste competenze ci aiutano a vivere una esistenza più felice e serena, allora la loro importanza è piuttosto chiara, in ogni ambito, dalla famiglia al lavoro.

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Samanta Mancini

1 Comment

  • Lorusso Gabriella

    Reply
    Posted on Gen 02, 2021 at 11:04 am

    Molto interessante!!!

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