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Cultura

Lo scambio simbolico nella relazione col paziente

Una riflessione sulla teoria del dono e contro-dono come struttura della relazione

Creazione e forza del significato

Edmund Husserl indica che un oggetto non è mai definito una volta per sempre poiché infiniti sono i modi di percepirlo e relazionarsi ad esso per cui si considera fenomenologicamente indefinibile. Nella generazione percettiva di una cosa, un tavolo, una passeggiata, un articolo, … non si mette alla luce qualcosa che è già dato, ma lo si crea creandolo, nel processo. L’idea di questo articolo non coincide con la stesura dell’articolo stesso, perché l’attività del crearlo produce significato, che retroagisce continuamente sul già scritto e il successivo ricontestualizza le parole precedenti. In questo senso la generazione legata al significato ha il carattere di evento poiché prende vita qualcosa di inedito e inaspettato.

La ricerca del significato produce panorami inediti, non ancora visti.

Ed è uno scambio, un’alternanza continua tra significato e significante: tutte le volte che non sottraggo valore al significato prodotto, fatalmente cristallizza in significante. Vale a dire che il significato trovato ha una forza, un valore, assegnatogli da noi, a cui, tendenzialmente, vorremmo conferire una durata eterna. È, in altri termini, la forza che esercitiamo sul mondo per adattarlo “alla terribile magia delle lettere del proprio nome”, che lo vorremmo a loro forma, come indicato da Elias Canetti. È questa la sollecitudine a spiegare il mondo secondo il nostro significato, a imbrigliarne l’alterità ontologica conformandolo “alle lettere del proprio nome”.

In questo sta l’urgenza della forza con cui rivestiamo il significato, l’urgenza a sopprimere l’alterità mai definita: il potersi vedere nel mondo come enorme specchio che rifletta la nostra rassicurante immagine.

Esistenza ed oggettivazione

L’essere parlante ha una richiesta profonda al momento della nascita: quella della necessità del riconoscimento della propria esistenza lungo tutto il tempo di tale esistenza.

Il significato della propria esistenza, chiedendo, o imponendo, che il mondo la confermi. Nel riconoscimento si cela il senso del nostro esistere.

Nella relazione che volgarmente chiamiamo curante-curato o professionista-utente, c’è per l’appunto, la richiesta di essere rappresentati per la propria esistenza, di avere una restituzione del significato della propria esistenza.

Questo problematizza la relazione quando abbiamo di fronte l’altro-da-noi, in quanto è il perno su cui incentriamo il rapporto significato-significante.

Il significato è un abisso da cui ricaviamo senza fine l’oggettivazione del mondo, il mondo tradotto in oggetti comprensibili.

Nel secondo volume de Il Metodo di Edgar Morin, “La vita della vita”, il filosofo francese scrive che gli oggetti creati dalla attività di computazione, che crea la coscienza del vivente, soggettivano a loro volta il computante, per cui si definisce una relazione, tra soggetto e oggetto, circolare di co-creazione. Questo anello definisce il mondo e chi noi siamo, da qui la nostra soggettività senza fine che si plasma sulla nostra oggettivazione del mondo.

Occorre allora mantenere la consapevolezza della presenza di questo resto irraggiungibile, un resto di alterità, ineliminabile, senza fine, sempre un passo avanti, inarrivabile.

Questa consapevolezza ha come strumento per esplicarsi, per diventare fatto, la sottrazione di valore al significato, come scritto sopra.

Il significato viene trovato, allora, come sosta temporanea e non come stazione d’arrivo.

Altrimenti la tautologia del significato prevale e il senso si cristallizza come in un’istantanea.

La tautologia intesa come “è così perché sì, perché non è in altro modo”, “la neve è bianca perché non è di altri colori”.

La forza della tautologia sta nell’essere, ovviamente, una affermazione sempre corretta.

Livelli significanti ed eccezioni

Probabilmente ci sono gerarchie di significanti e le persone le seguono per essere ammessi nel consorzio umano senza metterle in discussione. Ad esempio, l’andare in giro, per le strade della città in mutande o l’uccidere i propri simili.

Si va in giro vestiti perché è così, perché è sconveniente fare in altro modo, senza che lo si metta in discussione tutte le volte, ma potrebbe anche essere corretto il contrario (condizioni meteorologiche permettendo). Il significato è relativo, ma non aleatorio perché dona il senso del mondo.

Il significante è la confezione che si mantiene a prescindere dal contenuto e con ogni probabilità non si possono scardinare tutti i significanti della nostra vita, pena uno spaesamento che immobilizzerebbe la vita stessa di fronte all’angoscia dello sconosciuto.

Ma quello che è interessante sono le eccezioni.

San Francesco rimane nudo davanti alla folla in piazza: rinuncia a tutte le ricchezze della famiglia! Spezza i significanti ad una profondità estrema e da questa rottura emergono significati altrettanto estremi. Simone Weil filosofa francese del ‘900, docente universitaria, decide di andare a lavorare alle officine Renault a provare su di sé la stanchezza terribile dell’operaio di inizio secolo scorso, in seguito va a combattere nella guerra civile spagnola del 1936. Basaglia fa atto di eresia chiedendo la libera circolazione dei “matti” per la città: che il mondo riconosca la loro esistenza.

Le eccezioni ci ricordano della tensione che dobbiamo operare costantemente anche nel nostro piccolo, per sfuggire alla fascinazione del significante, dalle “lettere del nostro nome”. Per scoprire che il significato del nostro nome non è mai dato una volta per tutte.

Assistiamo all’invasione del significante, invece: la “presentificazione” assillante (una cosa è bella se è di adesso, non di 6 mesi fa), la quantità (la quantità di oggetti è importante non il singolo oggetto per il suo uso specifico), la velocità (l’aumento della velocità, il risparmio del tempo è sempre un valore positivo, in barba al piacere della lentezza), l’occupazione psichica continua (mai essere annoiati), lo stupore e sorpresa perenni aldilà del contenuto della notizia, e così via.

In tutti questi esempi non c’è una domanda rivolta al significato, alla ricerca del senso.

L’oggetto, in questo scenario, è dato per essere consumato aldilà dei significati che custodisce.  Consumo, indica incorporazione nella psiche e soma dell’utente per produrre l’identico, il riflesso di sé, ossia se non c’è senso si rimanda non a significati altri, diversi da sé, ma a sé stessi.

L’oggetto, reale o psichico o relazionale che sia, non viene indagato, interrogato perché non deve fornire altro all’infuori di quello che l’utente vuole trovare: il significante. E trova sé stesso col godimento dato dal consumo. Il proprio godimento che rimanda a sé stesso.

Alterità e scambio simbolico

L’alterità viene annullata. Si assimila annullando l’alterità, all’opposto dell’indagine in cui il senso dell’oggetto, lo si assimila, si, ma tramite il riconoscimento dell’alterità.

Il consumismo è l’uomo posto di fronte al nulla.

Il contrario dello scambio simbolico.

L’esigenza simbolica non si esaurisce mai nell’uomo in quanto parlante, ma si configura come la necessità di creare una relazione di senso con l’alterità. La possibilità del rapporto simbolico è connessa alla ricerca di significato, perché è possibile solo col riconoscimento altrui.

Nel meccanismo simbolico è resa impossibile l’equazione io=io.

Il druido celtico che taglia le erbe curative della foresta, attraverso un taglio sul palmo della mano e la preghiera, dà il proprio sangue alla foresta per il dono fattogli.

Qui è salvo lo scambio simbolico che rappresenta la possibilità per l’essere umano di riconoscere il mondo come altro – da – lui, in cui la teoria del dono e contro-dono teorizzata da Marcel Mauss, prende vita.

Le erbe curative, prese alla foresta dal sacerdote celtico, si caricano di “un’anima”, come descritto dall’antropologo francese, che legano il dono al donatore e che tenderanno a tornare dal loro proprietario nella loro forma originaria o sotto altra forma. Il druido, dunque, è obbligato a restituire, a offrire un contro-dono, per il semplice fatto che, riconosce che il mondo è altro e che esistono necessità di relazione e riconoscimento, tra gli interlocutori, costanti. Il contro-dono consisterà, dunque, in alcune gocce di sangue versate sul terreno. La foresta che dona, che si toglie per dare, è in una posizione di vulnerabilità. Se non onoro questa vulnerabilità sarò fuori dalla dinamica di riconoscimento esistenziale di cui ho bisogno per dare significato alla mia esistenza nel mondo. Onorare il proprio debito, in passato, era atto dovuto come “onore” da rispettare per essere degnamente rappresentati nel mondo, non farlo avrebbe portato vergogna, la quale è un sentimento sociale perché prevede l’opinione dell’altro.

Nel sistema melanesiano, ad esempio, una delle cosiddette culture primitive, per essere un uomo prestigioso bisogna “avere”, certo, come dappertutto ma il prestigio sta poi nel “donare, donare molto e donare dappertutto.”  Per creare relazioni, come già indicato dall’antropologo Maurice Leenhardt.

Ciò che colpisce è la forza, la priorità della relazione per gli individui, un primato di queste società che, l’antropologo sintetizza con l’espressione “uno è una frazione di due”.

Alain Caillè, sociologo francese, indica che oltre al valore d’uso e di scambio, indicati da Marx, esiste un altro tipo di valore, quello relativo “alla capacità che beni e servizi, se donati, hanno di creare e riprodurre relazioni sociali: un valore che potrebbe essere chiamato valore di legame, in quanto, con tale approccio, il legame diventa più importante del bene stesso”

Viene dunque interiorizzata un’alterità, che articola il senso del dono, via scambio simbolico.

Dono e riconoscimento dell’altro

Il sistema dei doni e contro doni è il modo in cui l’uomo semina sé stesso nel mondo, il mondo ha qualcosa di lui, il dono, che è inscritto in una modalità relazionale.

Relazionale perché nel donare è già implicita l’esistenza dell’altro: non si dona a sé stessi.

Non si esiste per sé stessi, Platone scriveva che ‟se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla) guarda la parte migliore dell’occhio dellaltro, vede sé stesso”.

Se manca da una delle parti il riconoscimento dell’altra parte, la pena è l’essere estranei a sé stessi perché si sarà deciso di elidere l’altro necessario al proprio riconoscimento.   

Il riconoscimento che otteniamo dagli altri alla nostra esistenza sulla scena del mondo, infatti, crea la struttura che ci permette di percepirci da una posizione estranea a noi stessi. Vale a dire che se voglio esistere nel mondo, devo riconoscere l’esistenza dell’altro che mi riconosca, questo porta ad un discorso sui partecipanti alla relazione, campo d’esperienza centrale dove l’individuo esperisce il dialogo metacognitivo. La persona, riconoscendo l’altro, dà esistenza a sé stessa.

La relazione, in sintesi, impedisce, attraverso il rapporto simbolico, all’essere umano di coincidere con l’universo, di collassare su sé stesso.

L’uomo, in questo senso, è altro da sé. 

Simulacro e scambio simbolico con il paziente

Quale scambio simbolico col paziente?

L’incontro col paziente, con l’utente, perché produca cambiamento, deve essere un incontro che dona esistenza a chi ci è di fronte. Ossia riconoscimento che eliciti la spinta alla riflessione su di sé, ad immaginare una possibile evoluzione della propria condizione, nel riconoscimento della propria esistenza.

Penso alle persone che per lavoro vedo al servizio sociale, con cui, per fare un lavoro reale, non fittizio, non fine a sé stesso, occorre introdurre questo scambio simbolico del dono.

Questa è una riflessione centrale che determina la sopravvivenza o la distruzione della persona che ci è davanti. Jean Baudrillard ha introdotto il termine simulacro per indicare una rappresentazione fittizia di qualcosa che pare reale, ma che tale non è. “Il Simulacro non è mai ciò che nasconde la verità – è la verità che nasconde il fatto che non esiste alcuna verità. Il Simulacro è vero”.  Questa la definizione del filosofo francese, indicata nelle sue opere

Il consumismo senza limite è cresciuto tanto fino ad essere un consumo del consumo, un consumismo di secondo livello potremmo dire debordando dalla sfera economica per giungere a tutte le altre compresa quella antropologica. Da qui la perdita del significato e il trionfo del significante: una circolazione selvaggia del segno dove lo scambio simbolico non è previsto.

Questo simulacro si riverbera dunque anche nel lavoro cosiddetto sociale. Qui sono presenti due anime preponderanti: una burocratica e l’altra umanistica. Le quali creano un circuito ricorsivo in cui l’una crea l’altra.

Sovente (ma non sempre) chi scrive, ha potuto osservare queste tensioni operanti nei servizi “per la cura delle persone” quali ad esempio quelli della psichiatria.

L’impianto relazionale emerge dalla struttura burocratica, meccanismo d’ordine che scorgendo l’anomalia, si attiva per livellarla.

Si osserva una burocratizzazione della relazione. Il simulacro della relazione, la quale prende vita perché previsto dal protocollo.

Una membrana, oramai imprescindibile, che dispone di alcune proprietà.

Dietro la membrana burocratica, infatti, ci si può sottrarre allo scambio simbolico, cioè alla possibilità di togliere una quota di forza con cui esigiamo dal mondo il riflesso della nostra immagine attraverso la vulnerabilità del dono, e l’attesa del riconoscimento da parte dell’altro. La facciata burocratica questo permette di evitarlo.

Il curante non deve nulla al paziente, le “lettere del proprio nome” con cui vede formato il mondo, vengono ipertrofizzate. Avviene la costituzione del simulacro della relazione di cura.

 Il paziente viene letteralmente protocollato. Si crea allora il simulacro della relazione. Si crea cioè una simulazione dello scambio simbolico. Il dono della propria vulnerabilità, condizione di impotenza, inferiorità, che invade la relazione con tutta la sua realtà, non è però un simulacro, né lo è la sofferenza che causa.

Bensì, è un’enorme richiesta di riconoscimento sotto forma di dono, cui non corrisponde alcun contro-dono. Non si assiste cioè ad un riconoscimento dell’altro, l’indicatore di questo è un’indifferenza relazionale che si esplicita attraverso l’osservanza pedissequa degli indicatori diagnostici, correzione della posologia farmacologica, spostamenti da una struttura all’altra del paziente senza richiederne l’opinione, trattamenti differenti a seconda della simpatia del malato psichiatrico e così via.

La diagnosi, in particolare, è il perno su cui si snoda la dinamica di questo simulacro. Permette il gioco del simulacro relazionale perché permette di contestare la mancanza di riconoscimento: il paziente è riconosciuto tanto è vero che c’è una diagnosi che lo attesta! Pur mancando il referente reale. Al centro c’è la diagnosi stessa come dispositivo burocratico. Se c’è altro nel fulcro dell’attenzione, una diagnosi non è sufficiente per contenere una persona tutta intera. Ho visto medici abbracciare pazienti che ne avevano bisogno, travalicando il documento e coinvolgendosi con il corpo e con il cuore.

Questo perché, qualunque riconoscimento, per essere tale, non può esimersi dal coinvolgimento del riconoscente. Lo indica, tra altre, la psichiatria di Eugenio Borgna che tramite lo sguardo fenomenologico, si sforza di capire, intuire, il significato che il disagio psichico ha per quella persona. Aldilà dell’inquadramento nelle categorie diagnostiche, seppur utili. E i riferimenti descrittivi, necessariamente, si ampliano agganciandosi alla poesia, ad esempio, per afferrare le dimensioni intime e sfuggenti dell’animo umano. O alla filosofia o alla antropologia, alla letteratura, ad una pluralità di letture perché articolatissima e impalpabile è l’esistenza altrui.

Di nuovo, il ritorno della dinamica significato-significante: la diagnosi-significante viene riempita dei significati della persona singolare ed unica tramite il riconoscimento della propria esistenza.

Attraverso il reciproco riconoscimento, ci si dona il mondo in cui siamo anche noi.

All’interno di questo scambio avviene la creazione, per entrambi, della propria soggettività necessità esistenziale dei parlanti da cui non si può prescindere.

All’interno dello scambio simbolico del dono, nessuno può, ma più importante, nessuno vuole esimersi dal parteciparvi.

BIBLIOGRAFIA

E. Husserl, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi parigini, Bompiani, Milano 1989

E. Morin, Il Metodo. La vita della vita, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007

A. Risso, Pedagogia dell’attenzione, IL Segnalibro. Torino 1994

A. Caillè, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998

J.Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Universale Economica Feltrinelli, Milano 2022

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alessandro richetta

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