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Salute

Dietro il Mito della Maternità

La nostra società guarda alla maternità come ad un momento di felicità idilliaca e di piena realizzazione per la donna. La maternità diviene nell’immaginario sociale sinonimo stesso di femminilità, non riconoscendo aspetti psichici molto complessi di un’esperienza che invece costituisce una condizione potenzialmente traumatica.
La transizione verso la maternità è un momento di crisi maturativa (Erikson, 1963) che porta la donna a completare il suo processo di separazione-individuazione (Mahler, 1975) permettendole di raggiungere una piena identità adulta.
È un importante compito evolutivo che richiede un’adeguata capacità di elaborazione, e che contiene in sé il rischio di sviluppare una possibile sintomatologia depressiva.
Durante la gravidanza la psiche della donna è particolarmente permeabile ai contenuti inconsci che sfuggono ai normali meccanismi di rimozione. Riemergono fantasmi, conflitti e traumi legati alla propria infanzia.
In questo processo di rielaborazione psichica la puerpera incontra due immagini: quella di sé da bambina e quella della propria madre.
Stupisce come nel corso dei colloqui psicoanalitici il discorso spontaneo delle gestanti sia denso di ricordi infantili e sempre incentrato su di sé. Il nascituro non è presente nel discorso o, se lo è, è anch’esso oggetto di un investimento narcisistico da parte della futura madre. Il bambino immaginario è proiezione dei conflitti, dei desideri e delle aspettative materne (Bydlowski, 1997).
Questo necessario confronto con la propria storia evolutiva, ed in particolare con la relazione avuta con la figura accudente, ha un peso determinante sulla futura maternità. Un’immagine molto eloquente è quella descritta da Fraiberg (1999) in cui i traumi non elaborati dei genitori, come fantasmi, invadono la stanza del bambino.
Quando il confronto con la propria storia evolutiva avviene in chiave positiva, la madre sviluppa gradualmente la capacità di anticipare mentalmente l’evento della nascita e dell’incontro con il neonato e con le sue richieste, superando quell’iniziale fase di ripiego narcisistico (Missonnier, 2003). A partire dal secondo trimestre di gravidanza, alcune madri strutturano un dialogo immaginario con il proprio bambino e fantasticano gesti immaginari come abbracciare, accarezzare, calmare il piccolo (Raphael-Leff, 1991).
La nascita è poi un momento di separazione e di lutto. Il parto è il luogo della separazione primaria e rappresenta un momento di lutto dato dalla perdita del bambino immaginario e della relazione fusionale con il feto (Missonnier, 2003).
Alla gioia per la nascita del figlio si accompagnano così sentimenti negativi che spesso sono castrati. Le madri infatti possono celare i pensieri e gli affetti negativi, non ritenendosi in diritto di sentirsi tristi, infelici o depresse, e possono giudicarsi in termini morali, come madri cattive e inadeguate. E’ ciò che si definisce il “paradosso della donna depressa” (Guedeney, 1993)
La sofferenza resta muta, soffocando la spinta affettiva ed emotiva, ed ancor più ostacolando la donna nell’affrontare il delicato momento del post-partum, che comporta una profonda ristrutturazione della propria immagine e del proprio ruolo, ma anche della propria vita personale e coniugale.
Soprattutto è l’incontro con il bambino reale, un bambino sconosciuto, che è sicuramente diverso dal bambino ideale, immaginato.
La consapevolezza che questa creatura dipenda interamente dalle cure materne può attivare profonde ansie, legate alla paura di essere inadeguata nel proprio ruolo. E’ fondamentale in questa fase per la donna poter percepire il sostegno del partner, dei familiari e del tessuto sociale più ampio.
Si può adesso comprendere come un processo psichico così complesso, se non è adeguatamente elaborato in tutte le sue fasi, può evolvere in un quadro psicopatologico noto appunto come depressione post-partum.
Tale disturbo può manifestarsi nel periodo successivo al parto; secondo i criteri stabiliti dal DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’esordio avviene entro le prime 4 settimane dopo il parto, ma nella pratica clinica si è riscontrato un periodo di vulnerabilità psicologica più ampio, comprendendo i primi sei mesi dopo il parto, e talvolta anche un anno nei cosiddetti casi di cronicizzazione del disturbo (Monti, Agostini, 2006). Tuttavia, determinare il momento esatto della comparsa può risultare difficile a causa della natura insidiosa della depressione.
I sintomi più frequenti sono rappresentati da fluttuazioni dell’umore, senso di affaticamento e livelli elevati di ansia che rivelano una preoccupazione eccessiva per il benessere del neonato, espressa attraverso pensieri ossessivi, talvolta deliranti. Assieme a questi sintomi la donna può sviluppare anche sensi di colpa ed autorimproveri, ripiegandosi in uno stato di isolamento, e nei casi più gravi possono comparire idee suicidarie per sé e per il bambino. Naturalmente l’entità dei sintomi può variare da caso a caso, così come il decorso.
Gli effetti non compromettono soltanto la salute della donna, ma anche e soprattutto lo sviluppo psichico del bambino.
La depressione materna influisce negativamente sulla qualità dell’interazione madre-bambino: la madre si mostra scarsamente responsiva e incapace di interpretare adeguatamente i segnali del bambino e di sintonizzarsi emotivamente con lui.
E’ innanzitutto lo sviluppo affettivo del bambino ad essere compromesso. In presenza di un sistema di accudimento efficace, il bambino sviluppa gradualmente la capacità di regolare le proprie emozioni attraverso il rispecchiamento materno, ma all’interno di un’interazione diadica disturbata il piccolo deve preoccuparsi di autoregolare i propri stati di disagio. Può mettere in atto un insieme di strategie autoregolatorie disfunzionali, che possono manifestarsi attraverso comportamenti di evitamento – allontanare la testa, distogliere lo sguardo – oppure attraverso gesti autoconsolatori, tipici di alcuni quadri autistici – dondolarsi, succhiare e/o manipolare parti del proprio corpo – (Ammaniti et al., 2007).
Si tratta di una precoce risposta di difesa all’esperienza disorganizzante del suo incontro con la madre.
Allo stesso modo la qualità dell’attaccamento risente della depressione materna: la mancanza di reciprocità infatti ostacola l’instaurarsi di un sistema di attaccamento sicuro. Il bambino, esposto precocemente a ripetuti fallimenti nella relazione con la sua figura di accudimento, tende ad interiorizzare una rappresentazione negativa di sé e delle sue relazioni.
Infine esiste un significativo rischio di trasmissione psicopatologica, legato ai processi di identificazione che si attivano all’interno dell’interazione, favorendo l’instaurarsi nel bambino di un nucleo affettivo rispecchiante quello materno. Alcune osservazioni sperimentali hanno evidenziato la presenza di un’organizzazione cerebrale del bambino che, già a 10 mesi, riflette la depressione materna (Beebe, Lachmann, 2002).
La sfida oggi è potere intervenire tempestivamente sul disturbo depressivo, attraverso un assessment precoce, per limitare l’entità dei suoi effetti sulla salute della madre e del suo bambino. Ancor più utile può essere intervenire a livello preventivo, fornendo un adeguato sostegno alla maternità, che guidi la donna in questa delicata fase di transizione, accompagnandola nell’assunzione del suo nuovo ruolo.
BIBLIOGRAFIA
Ammaniti M., Cimino S., Trentini C. (2007) Quando le madri non sono felici. La depressione post-partum. Il Pensiero Scientifico, Roma.
Beebe B., Lachmann F.M. (2002) Infant Research e trattamento degli adulti. Un modello sistemico-diadico delle interazioni. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003.
Bydlowski M. (1997) Il debito di vita. I segreti della filiazione. Tr. it. Quattroventi, Urbino, 2000.
Fraiberg S. H. Il sostegno allo sviluppo. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.
Missonnier S. (2003) La consultazione terapeutica perinatale. Psicologia della genitorialità, della gravidanza e della nascita. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.
Monti F., Agostini, F. (2006), La depressione postnatale, Carocci, Roma.

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