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Salute

Sindrome da Stress in Area Critica

Stress per l'operatore sanitario

La possibilità che l’operatore sanitario in area critica viva, durante la giornata lavorativa, un “trauma emotivo”, è elevata ed il rischio è proporzionale al tipo di coinvolgimento che si ha con la persona che si sta assistendo.
Tale trauma è l’effetto collaterale delle professioni d’aiuto che se non gestito può a lungo produrre sequele psicologiche di forte disagio in grado di interferire, non solo sulla sfera personale, ma anche su quella professionale, incidendo drasticamente sulla qualità del loro operato. 

La relazione d’aiuto non deve essere più unicamente intesa con una visione “operatore verso paziente” ma bisogna focalizzare l’attenzione sull’importanza del sostegno psicologico nell’operatore sanitario stesso.

L'operatore sanitario e la condivisione del dolore

L’operatore sanitario impegnato nell’assistenza in area critica è esposto al dolore altrui.
Il quotidiano e continuo confronto con le dimensioni della malattia, con il dolore altrui, con la cronicità ed il disagio, con l’handicap, comporta fatica e stress e richiede equilibrio personale, capacità professionali, condivisione in équipe.

L’incontro con la morte e il lutto, in particolare, sollecita vissuti ed emozioni intense, perchè richiama esperienze personali di lutti già avvenuti o prefigurati, e alla propria morte.

Definizione del trauma da stress

Unendo l’aspetto fisico con quello psichico possiamo definire genericamente il trauma come: 

Un’esperienza di particolare gravità che compromette il senso di stabilità e continuità fisica o psichica di una persona

Come si compromette l'equilibrio dell'operatore socio sanitario

In ogni tipo di relazione entrano in gioco, in base ai vissuti, gli stati emotivi ed affettivi dei singoli individui che si relazionano tra loro; in alcuni casi questi stati d’animo possono trasformarsi in “traumi emotivi”. Nella relazione d’aiuto le implicazioni emozionali, difficilmente controllabili e non sempre positive, possono compromettere l’equilibrio psichico dell’aiutante generando in esso una sintomatologia psicosomatica con disturbi comportamentali quali depressione, stanchezza, irritabilità, insonnia, ansia, affaticamento eccessivo, isolamento, variabilità dell’umore, ecc. che possono durare nel tempo e sfociare in un vero e proprio stato di malattia, in una reazione emozionale creata dal contatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza.
L’operatore nel suo contesto lavorativo è continuamente sottoposto a questo tipo di sollecitazioni che talvolta vanno a determinare l’insorgenza di stati emotivi, semplici o complessi, responsabili della diminuzione o addirittura della perdita di un equilibrio interiore indispensabile nella performance lavorativa.

Il distacco emotivo dell'operatore professionale

Nell’ambito professionale sanitario si usa intendere come relazione d’aiuto un rapporto a senso unico, operatore/paziente, contando sul fatto che il bisogno da soddisfare sia solo in chi sta nella condizione di svantaggio, in questo caso di malattia, trascurando quelle che sono le implicazioni emozionali di chi assiste e tutte le sue sequele psicologiche. In altre parole è questo un tipo di approccio, unidirezionale/professionale/razionale in cui il professionista, investito del proprio ruolo, tende a “dissociarsi” dai propri vissuti, esigenze, emozioni e paure senza accorgersi che queste, inevitabilmente ed inconsciamente, vanno ad intrecciarsi con la malattia stessa del proprio assistito.

Il distacco emotivo volontario o involontario

Il “distacco emotivo” può avere carattere volontario o involontario per sottrarsi nell’immediatezza della situazione o successivamente a situazioni stressanti e da questo si possono sviluppare, come meccanismo di difesa, atteggiamenti negativi quali l’indifferenza, il distacco, il cinismo, l’ostilità nei confronti delle persone con cui si lavora o che si assiste.

Si ha l’illusione di costruirsi una sorta di “immunità” dalle malattie e dalla morte. La possibilità che l’operatore in area critica viva, durante la giornata lavorativa, questo genere di “trauma emotivo”, è elevata ed il rischio è proporzionale al tipo di coinvolgimento che si ha con la persona che si sta assistendo. Tale trauma è l’effetto collaterale delle professioni d’aiuto che se non gestito può a lungo produrre sequele psicologiche di forte disagio in grado di interferire non solo sulla sfera personale ma anche su quella professionale, incidendo drasticamente sulla qualità del loro operato. La relazione d’aiuto non deve essere più unicamente intesa con una visione “operatore verso paziente” ma bisogna focalizzare l’attenzione sull’importanza del sostegno psicologico nell’operatore sanitario stesso. L’utilizzo strutturato di tecniche di sostegno psicologico avrebbe la finalità di rielaborare, in ambito professionale, i vissuti emozionali dell’evento in modo da ridurre gli stress ed impedire che l’accumulo di questi, associati ad altri fattori usuranti, diano luogo ad un disagio personale che, trasferito in ambito lavorativo, ridurrebbe le capacità professionali, diminuirebbe il livello di coinvolgimento ed aumenterebbe le difficoltà a relazionarsi con l’utente e con gli altri operatori della stessa equipe. E’ evidente che il continuo accumularsi di questi eventi stressogeni, senza la possibilità che vengano rielaborati successivamente, si trasformino in “angosce” interiori difficilmente controllabili e che inducano l’operatore a ricorrere a svariate forme di difesa quali appunto “il distacco” fino ad arrivare, nei casi più gravi, all’assenteismo o alla necessità di cambiare ambiente lavorativo. Un operatore “stressato” non è nelle condizioni migliori per fornire, in una relazione d’aiuto, il giusto ed equilibrato apporto “umano” all’assistenza e potrebbe risultare fortemente pericoloso per se stesso, per gli altri operatori e per gli utenti. Allo stesso modo l’eccessivo coinvolgimento o il distacco impediscono di vivere serenamente la propria professione, limitandola alla sola risposta tecnica dei bisogni fisici dell’ammalato, senza considerare la persona con cui ci si relaziona e le sue richieste inespresse (di sicurezza, di fiducia, ecc.). Nonostante la consapevolezza dell’esistenza del problema, i programmi di sostegno procedono a rilento poiché culturalmente si è soliti pensare che chi esprime le proprie emozioni sia un elemento debole, non capace di controllarsi e quindi inaffidabile. Il sostegno psicologico è considerato in antitesi con la figura stessa dell’Infermiere e non si è abituati ad investire sulla crescita personale per incidere qualitativamente su quella professionale. Nell’ambito sanitario ogni realtà produttiva ha caratteristiche proprie di unicità ma tra queste esiste un elemento che li accomuna: il coinvolgimento emozionale ripetuto nel tempo, una lunga serie di microtraumi che nella maggior parte dei casi, se isolati, non producono effetti significativamente negativi sulla persona ma che divengono angoscianti e dolorosi se non gestiti. Il contatto costante con la sofferenza può interiorizzarsi come un trauma e creare un senso d’impotenza e di disagio che può minare il proprio equilibrio professionale e personale.

Il contatto con questi eventi comporta un forte dispendio di energie mentali con conseguente logoramento psichico dell’operatore stesso ed alto rischio di Burnout poiché l’impegno fisico e psichico di ogni intervento non è né quantificabile né prevedibile e spesso richiede forti responsabilità con decisioni e valutazioni immediate. Gli studi scientifici confermano che l’esposizione ad esperienze potenzialmente stressanti o traumatiche possono dare origine, nel corso della vita, a molti tipi di problemi e disturbi psicologici ma c’è da sottolineare che solo una percentuale relativa di queste persone, coinvolte in casi particolarmente gravi, va incontro a conseguenze psicologiche durature e croniche. Con ciò si vuol ribadire che non tutto il personale dell’emergenza viva patologicamente la propria attività professionale e che debba essere per forza “sostenuto”. Infatti ognuno reagisce in base al proprio vissuto ed all’indole caratteriale ma è importante non sottovalutare il problema che innegabilmente esiste. E’ importante quindi non sottovalutare gli eventi ed un intervento di sostegno rapido ed efficace unito ad una attività di prevenzione attraverso percorsi formativi di sostegno psicologico potrebbe evitare in chi è in contatto quotidiano con morte, disabilità e sofferenza l’instaurarsi di forti disturbi psichici e del Burnout.

Oggi viene riconosciuta l’importanza dei fattori psicologici lavorativi e dell’impatto che possono avere sul benessere dell’individuo, prendendo atto di una letteratura scientifica ampiamente consolidata. Il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008 riconosce come accanto alle patologie da rischi noti stiano acquisendo rilievo le patologie da rischi emergenti come le “Patologie da fattori psico/sociali associate a stress” meglio identificate come “Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Queste patologie causate da costrittività organizzativa sono riconosciute come malattie professionali e prevedono la obbligatorietà della denuncia all’INAIL (Gazzetta Ufficiale n.70 del 22/3/2008, Suppl. 68). Al professionista di oggi la società richiede flessibilità, competenza e maggiore professionalità quali esiti di una formazione alla professione più globale, che comprende aspetti tecnici, psicologici, manageriali. Tale importanza scaturisce dall’interesse attuale per fenomeni come il Burnout, direttamente correlati a condizioni di stress lavorativo con conseguenze negative che possono essere causa di “errore professionale”, “difficoltà nel rapporto con il paziente con minore empatia e sensibilità”, “tensione e depressione dell’operatore”.

Lo stess lavorativo in Italia: numeri e dati

Queste conseguenze si riflettono inevitabilmente sulla efficacia del servizio sanitario nazionale e comportano una complessiva riduzione della qualità delle prestazioni. 

Secondo l’Osservatorio per le politiche sociali in Europa (Inca CGIL di Bruxelles) l’Italia è lo Stato dell’Unione in cui si registra il maggior numero di stressati da lavoro: ben il 27% del totale contro una media europea del 22%.

Da qui la necessità di realizzare adeguati programmi di prevenzione dello stress lavorativo attraverso strategie mirate alla formazione degli operatori ed all’organizzazione del lavoro. Il livello dei servizi è garantito solo disapplicando in modo sostanziale una normativa europea su recuperi, turni, guardie, riposi, varata per garantire la salute degli operatori e la sicurezza degli utenti dei servizi sanitari.

Gli studi dimostrano come dopo 12 ore di veglia la risposta individuale sia molto alterata e come l’alterazione sia maggiore quanto più si rimanga svegli. Inoltre nei casi in cui sono richieste prestazioni impegnative dal punto di vista fisico o emotivo diminuisce ancora di più la capacità di controllo. Alcune ricerche hanno addirittura rilevato che nelle ore finali dei turni di notte, il 30 % circa di errori poteva essere evitato. Ci sono segnali contrastanti che si muovono in direzione opposta: da un lato l’iniziativa di tutelare il professionista d’aiuto con un disegno di legge sul Burnout, dall’altro il voler derogare al decreto legislativo 66 del 2003 di adeguamento alla normativa europea per diminuire il numero di ore di riposo tra un turno lavorativo e l’altro, con la motivazione di mantenere lo standard organizzativo del servizio sanitario nazionale.
Diventa importante, dunque, prendere in considerazione l’individuo, tenendo conto non solo delle ferite fisiche, ma anche delle sofferenze psichiche. Invero, quando una persona subisce un trauma in seguito ad un evento eccezionale, unico ed imprevedibile, a cui assiste o di cui è vittima, vive una situazione di stress. E’ statisticamente dimostrato che all’incirca tre quarti dei soccorritori professionisti (ambulanze, pompieri, polizia, protezione civile, ecc.) che intervengono in occasione di avvenimenti gravi o di catastrofi, subiscono uno stato di stress acuto. Esso è un insieme di reazioni naturali (disturbi del sonno – ricordi intrusivi) che possono durare alcuni giorni o settimane. L’individuo in genere tende a riassorbire autonomamente queste reazioni. Se però non vi riesce e non vengono curate, si può sviluppare uno stato di stress postraumatico (Post Traumatic Stress Desorder – PTSD) difficile da guarire. Non vi sono indicazioni per stabilire con che frequenza e chi può sviluppare questa malattia. Spesso sono proprio coloro che “continuano a funzionare normalmente” che possono in seguito sviluppare sintomi di PTSD. Non bisogna mai minimizzare gli effetti di un avvenimento in quanto la sua gravità non è sempre indicatore sufficiente per determinare chi ha bisogno di sostegno ognuno reagisce in base alla propria storia personale e al proprio vissuto. Inoltre un intervento rapido ed efficace evita, di principio, l’insediamento di traumi gravi e cronici. Il Debriefing non è una psicoterapia ma un processo che favorisce la mobilitazione delle notevoli capacità di superamento del vissuto traumatico di un individuo: ognuno di noi ha risorse talvolta insospettate per elaborare lesioni alla propria psiche. Può prevenire efficacemente l’insorgere di disturbi psichici più gravi, ma non deve necessariamente essere effettuato da professionisti del ramo psicoterapeutico o psichiatrico. Spesso è addirittura più indicato l’intervento di persone provenienti dalla medesima categoria delle persone coinvolte, adeguatamente formate e coadiuvate, se necessario, da una persona formata in salute mentale. Il debriefer non si occupa di scoprire il perché delle sensazioni vissute ma unicamente di ricostruire la storia completa dell’evento, in modo da trovare un filo logico, un filo conduttore che sappia dare un senso agli avvenimenti. Questo per consentire di verbalizzare (quindi di portare a livello cognitivo) l’accaduto, descrivendo i fatti, i pensieri e i sentimenti, e di informare sulla normalità dei disturbi, facendoli rientrare nella realtà quotidiana per permettere a chi interviene di restare operativo e di evitare un esaurimento personale e professionale. Il tema del Debriefing psicologico o Critical Incident Stress Debriefing (CISD) ha avuto un ruolo centrale nello sviluppo del settore della psicologia dell’emergenza, soprattutto in ambito anglosassone.
A partire dall’originale proposta di Mitchell, il CISD si è diffuso in tutto il mondo, tanto da essere a volte “confuso” con l’intera “pratica” della psicologia dell’emergenza, superando in popolarità la stessa matrice di intervento (CISM Critical Incident Stress Management).
Il Debriefing è anche un processo educativo che si usa dopo un gioco, una simulazione, un role-play o un’altra attività esperienziale per aiutare i partecipanti a riflettere sulle loro precedenti esperienze al fine di ricavarne significativi insight
I seguenti tipi di attività traggono beneficio dal Debriefing;
a) esperienze emozionali;
b) impegnative attività di gruppo;
c) traumi della vita reale come la morte di un familiare.
La letteratura sulla simulazione giocata contiene diversi rendiconti specifici. Vi è un modello procedurale per la simulazione e tre modi di facilitare l’apprendimento degli adulti. Nel “modo gerarchico” il facilitatore guida il processo di apprendimento; nel “modo cooperativo” il facilitatore condivide il suo potere; nel “modo autonomo” il facilitatore dà totale autonomia al gruppo. Questi tre modi si possono applicare anche al processo di Debriefing. Sebbene gruppi specifici di discenti (e tipi specifici di attività esperienziali) possano trarre beneficio dal primo e dal terzo modo, è stato notato che la maggior parte dei discenti e delle attività esperienziali si orientano verso il modo cooperativo. La procedura di Debriefing utilizza un approccio strutturato per assicurare l’arricchimento congiunto del facilitatore e dei partecipanti. I passi iniziali nell’analizzare un’attività esperienziale, specialmente se provoca forti sensazioni, dovrebbero far emergere le differenti emozioni risultanti dall’attività. Questo può essere seguito da una ricerca più riflessiva delle generalizzazioni cognitive desiderate.

Domande per strutturare la cronologia di una sessione di Debriefing

Alcuni autori hanno suggerito una serie di domande per strutturare la cronologia di una sessione di Debriefing, specialmente la sua componente cognitiva.
E’ stata fornita un’esauriente lista di domande chiave di analisi per ciascuna delle seguenti fasi del ciclo di apprendimento esperienziale:

· Fase di esperienza (per es. «Che cosa succede?»);
· Fase di condivisione (per es. «Come vi siete sentiti per questo?»);
· Fase di interpretazione (per es. «Come vi siete spiegati tutto questo?»);
· Fase di generalizzazione (per es. «Che cosa avete appreso da questo?»);
· Fase di applicazione (per es. «Che cosa vi piacerebbe fare con questo?»);
· Fase di analisi (per es. «Che novità buone/cattive ci sono?»).

Il Debriefing di Lederman e Stewart

Lederman e Stewart (1986) usano un quadro differente per strutturare le domande usate durante il Debriefing:

· Domande di validità (per es. «Che cosa riguardava tutto questo?»)
· Domande di attendibilità (per es. «Perché è successo?»)
· Domande di utilità (per es. «Quanto vi è costata l’esperienza?»).

Il Debriefing role-play di Van Ments

Van Ments (1989) suggerisce tre fasi di domande per fare il Debriefing di un role-play. Questa struttura è facilmente generalizzabile a tutti gli altri tipi di apprendimento esperienziale:

· Stabilire i fatti (per es. «Che cosa credete che sia accaduto?»)
· Analizzare le cause del comportamento (per es. «C’è un’altra possibilità?»)
· Pianificare l’azione (per es. «Come applichereste queste strategie alla vita reale?»).
Il nostro modello procedurale del Debriefing è riassunto in sette fasi di domande da usare con flessibilità di sequenza cronologica. 

Il Debriefing attuale

Descrivo brevemente queste sette fasi:

Come vi sentite?
Queste domande forniscono uno scarico emozionale. Le domande e le discussioni in questa fase rendono più facile analizzare più obiettivamente le esperienze dei partecipanti nelle fasi successive
Che cosa è successo?
Queste domande hanno la fondamentale funzione di raccolta dati. Durante questa fase, i partecipanti rievocano le loro esperienze dell’attività principale e scoprono somiglianze, differenze e modelli
Vi sembra che…?
Queste domande facilitano la generazione di ipotesi e l’esame di realtà. Suggeriscono relazioni causa/effetto ed incoraggiano i partecipanti a sostenere o rifiutare le ipotesi in base ai dati dell’attività principale
Déjà vu?
Queste domande esaminano la rilevanza dei dati dell’attività principale rispetto al mondo reale. Incoraggiano i partecipanti a discutere analogie con le esperienze quotidiane sul loro posto di lavoro. Rinforzano anche applicazioni future degli “insight”attuali
Che cosa fareste in modo diverso?
Queste domande fanno emergere i ripensamenti dei partecipanti. Prendono fondamentalmente questa forma: «Se voi vi trovaste di nuovo nella stessa esperienza, come vi comportereste sapendo ciò che sapete ora?»
Che cosa succederebbe se…?
Queste domande incoraggiano i partecipanti ad applicare i loro “insight”in nuovi contesti. Richiedono ai giocatori di fare ipotesi sull’impatto dei cambiamenti nel contesto
Potete migliorare questa attività?
Queste domande invitano i partecipanti a suggerire variazioni dell’attività esperienziale. Si producono più idee possibili per migliorare l’impatto educativo e motivazionale dell’attività. 

Spesso il Debriefing apre nuove prospettive che richiedono di avviare un nuovo processo di problem setting. Tutto comincia con il Briefing e finisce con il Debriefing. Con il Briefing si entra nel gioco, con il Debriefing se ne esce. Nel processo si fanno esperienze dirette. Fuori dal gioco siamo spettatori, critici, giudici. Siamo in grado di vedere da fuori il funzionamento del gioco, e noi stessi come giocatori. 

Con il gioco si impara facendo, dopo il gioco con il Debriefing si impara riflettendo su ciò che si è fatto. 

Quindi:
1) Briefing: che cosa dobbiamo fare?
2) Debriefing: che cosa abbiamo fatto?
3) Benchmarking come problem setting: dal confronto con i migliori nasce il disagio e si riesce ad individuare l’area di miglioramento;
4) Debug = eliminazione dei difetti che porta al miglioramento delle procedure Verifica = valutazione dei risultati;
5) Debriefing = riflessione finale su tutto ciò che è accaduto, di bene e di male, considerando retrospettivamente ciò che è stato e trovando le motivazioni per azioni che non erano state richieste esplicitamente dal briefing ma che era necessario eseguire per ottemperare al briefing.

Il Briefing Classico

Il Debriefing “classico” detto anche “ Critical Incident Stress Debriefing / PsychologicalDebrefing (CISD/PD)”, una delle parti del più ampio e complesso protocollo del “ Critical IncidentStress Management (CISM)“, dovrebbe essere rivolto esclusivamente a gruppi relativamente omogenei di soccorritori (e quindi non di vittime), ed è composto da sette fasi distinte e questo è un fattore ritenuto da molti come aspetto di eccessiva rigidità funzionale del protocollo iniziale).

Viene svolto tra le 24 e le 96 ore che seguono l’avvenimento cioè quando l’esperienza si è potuta strutturare psicologicamente almeno un minimo, ma non si è comunque ancora “cristallizzata” del tutto nel vissuto delle persone coinvolte.
Il CISD permette, attraverso lo scambio strutturato e “significante” dell’esperienza gruppale, di ridurre le possibili conseguenze negative di un avvenimento traumatico a livello psichico, come per esempio l’insorgere della sindrome da stress post-traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder) ed altre sindromi collegate.
Nel corso del lavoro di gruppo, attraverso le varie fasi, si affrontano progressivamente fatti, pensieri, emozioni e sintomi al fine di proporre una prima rielaborazione e ristabilire una migliore comprensione dell’avvenimento per permettere di reinserirlo nel corso della propria esistenza dandogli almeno un parziale significato, condiviso con gli altri membri del gruppo.

7 fasi del protocollo di Mitchell

Le sette fasi procedurali “classiche” del protocollo di Mitchell sono:
1. Introduzione (alla situazione ed al lavoro di gruppo);
2. Discussione dei Fatti (ricostruzione degli eventi occorsi, attraverso le “narrazioni” e le prospettive multiple dei partecipanti);
3. Discussione dei Pensieri/Cognizioni (che i partecipanti hanno avuto durante l’evento);
4. Discussione delle Emozioni (condividendo quelle provate durante l’evento, e comprendendo così che è “legittimo e normale” sentirsi a disagio dopo un evento critico, e che anche altri colleghi possano aver avuto emozioni simili alle proprie);
5. Discussione dei Sintomi (eventualmente provati nelle ore o nei giorni successivi all’evento critico);
6. Fornire Informazioni(sulle reazioni post-traumatiche e su eventuali “punti di contatto” in caso di necessità personali future);
7. Conclusione (che “chiude” l’esperienza, sfumando dopo – a volte – verso un chiusura anche informale – spesso bevendo e mangiando qualcosa insieme per rinsaldare i legami sociali di gruppo dopo l’evento critico e la “fatica emotiva” del Debriefing).
In alcuni approcci europei, si aggiunge tra la sesta e la settima fase una fase aggiuntiva, detta del “Rito” di particolare valore simbolico. Generalmente, il Debriefing è preceduto da un incontro di Defusing, soprattutto con gli specialisti dell’aiuto (infermieri, pompieri, soccorritori, etc.) se svolto al termine del servizio in cui si è verificato l’evento critico ed il Defusing viene detto Demobilization

Bibliografia e Riferimenti Testuali

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Raffaele Crescenzo

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