In questo breve contributo illustreremo la terapia psicologica di gruppo considerandone la storia, i suoi principi generali e le caratteristiche tecniche di applicazione. L’argomento verrà trattato in linea generale, per quelle che sono le caratteristiche sue proprie, indipendentemente dal modello clinico di riferimento, illustrando man mano quelle che sono le peculiarità degli orientamenti psicoterapeutici, in particolare di quello psicodinamico e quello cognitivo-comportamentale.
Storia
L’origine della terapia di gruppo è fatta risalire a Joseph H. Pratt (1922) un medico internista del Massachusetts General Hospital che aveva organizzato dei gruppi di terapia per i pazienti ammalati di tubercolosi.
In ambito psichiatrico invece fu Jacob. L. Moreno (1898-1974), psichiatra rumeno, a coniare il termine di terapia di gruppo. Egli si era ispirato al Stegreiftheater (il teatro spontaneo di Vienna) per il modello dello psicodramma.
Nel suo libro Psicologia di gruppo e analisi dell’ego (1921-22) Freud aveva descritto i meccanismi di insight e reazioni di transfert all’interno dei gruppi. Egli tuttavia non aveva mai condotto gruppi di terapia. Fu in seguito che altri autori applicarono questi principi nella pratica clinica. In particolare Trigant Burrow (1927) coniò il termine di analisi di gruppo, per indicare la terapia analitica in sedute di gruppo. Louis Wender negli anni ’30 applicò anch’egli i concetti psicoanalitici alla terapia di gruppo sostenendo che il gruppo ricrea la situazione familiare.
Determinante nello studio dei gruppi è la figura di Kurt Lewin (1947) che ha introdotto il concetto di campo, che ha evidenziato come il gruppo sia più che la somma dei singoli individui che lo compongono e ha coniato il termine dinamica di gruppo. Lewin non si dedicò in senso stretto al tema del gruppo in terapia ma pose i fondamenti per l’estensione delle tecniche di gruppo sia in ambito clinico, sia in ambito socio-organizzativo. L’opera di Lewin è stata fondamentale per lo sviluppo di numerosi metodi per l’intervento nei sistemi sociali, dai piccoli gruppi alle comunità, dalle reti alle organizzazioni.
In Inghilterra l’utilizzo dei gruppi in ambito clinico ha ricevuto notevole impulso dopo la seconda guerra mondiale, in conseguenza dell’alto numero di soggetti con disturbi psichici. Wilfred R. Bion (1959), di formazione psicoanalitica, ha formulato l’ipotesi che il gruppo abbia una vita mentale separata, con le sue dinamiche ed i suoi complessi stati emotivi, coniando il termine basic assumption cultures. Sempre in questo periodo un altro autore Henry Ezriel (1950) descrisse il transference tra i membri presi singolarmente e tra i membri ed il gruppo nel suo insieme.
Nell’ambito degli ospedali psichiatrici i primi esperimenti di terapia di gruppo risalgono agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti con le comunità terapeutiche. Una delle prime comunità fu quella fondata da Menninger (1936) la Menninger Foundation in Kansas. Il trattamento ospedaliero si basava sulla premessa che diverse forme di interazione sociale potevano essere di beneficio ai soggetti affetti da varie forme di disagio mentale. In un’altra istituzione ospedaliera, Worcester State Hospital in Massachusetts, L. Cody Marsh, un prete poi diventato medico, leggeva ai pazienti psichiatrici alcuni testi sulle malattie psichiatriche e poi organizzava gruppi di discussione. I pazienti dovevano superare un test prima delle dimissioni. Allo stesso modo al St. Elizabeth’s Hospital in Washington DC, Lazell (1921) teneva lezioni ai pazienti schizofrenici spiegando in termini psicoanalitici le origini dei loro disturbi.
L’approccio di Foulkes, che come Bion aveva lavorato negli ospedali militari, si basava invece su basi teoriche e, soprattutto, su attenzioni metodologiche più robuste. Egli riteneva che la comunità in cui il paziente si trovava a vivere era da intendersi come un grande gruppo e che in quanto tale possiede dei suoi propri poteri terapeutici. Per questo enfatizzava l’importanza del milieu nel trattamento dei pazienti ospedalizzati. Egli riconosceva che l’ospedale stesso era un gruppo più largo di cui i gruppi terapeutici erano una parte più piccola. Ogni parte era influenzata dagli eventi che accadevano non solo in essa ma anche intorno ad essa.
In seguito in Inghilterra si approfondì il concetto di milieu terapeutico ad opera di Maxwell Jones (1953). L’idea era che l’ambiente sociale in cui si trova il paziente favorisce e stimola il suo recupero. Tutte le relazioni interpersonali all’interno dell’ospedale sono considerate come parte del milieu: paziente-paziente, paziente-personale, personale-paziente, personale-personale. Sia i pazienti che il personale erano coinvolti nelle responsabilità della gestione di molti aspetti della cura: la terapia farmacologica, le attività del reparto e i privilegi concessi all’interno del reparto. Ogni momento di interazione con i pazienti era considerato un’opportunità per conoscere lui i ei suoi problemi, aiutandolo a cambiare. Negli Stati Uniti nonostante gli attuali problemi economici abbiano modificato i sistemi di organizzazione degli ospedali questi presupposti teorici sono ancora alla base del trattamento dei pazienti ricoverati per problematiche psichiche, in particolare nelle strutture psichiatriche.
A partire dagli anni 60 del secolo scorso le metodologie di gruppo hanno avuto una notevole spinta verso la sperimentazione, sia scientifica, sia professionale. Inizialmente sono state introdotte innovazioni di derivazione analitica ma adatte alla dinamica gruppale, come fatto da Berne nella sua opera Principles of Group Treatment. L’innovazione principale è stata però l’introduzione di adeguate attenzioni alla dimensione corporea, recuperando la lezione derivante dalla bioenergetica, ed alla creazione di senso, introducendo i prodromi del filone transpersonale. I primi, e in parte ancora insuperati, tentativi di riflettere criticamente sul fenomeno sono stati quelli di Ruitenbeek e di Sauret e Schutzenberger.
Principi della terapia di gruppo
Si parla di terapia di gruppo quando la terapia si basa sull’interazione dei membri del gruppo. E’ infatti proprio questa interazione, questo confronto, a svolgere un’azione terapeutica. Tale azione consiste in generale nel fornire un senso di supporto e appoggio ai membri del gruppo, aiutandoli a provare sollievo dai sintomi, aumentare l’autostima e sentirsi liberi di riprendere in mano la propria vita.
Nel contesto del gruppo i membri possono acquisire nuove conoscenze o capacità sociali e sono più a loro agio nello sperimentarle. Nel caso dei pazienti ricoverati, che possono soffrire per gravi disturbi mentali e comportamentali che ne causano notevole stress, il gruppo può essere di aiuto per ricostituire alcuni aspetti della loro personalità, oltre che alleviare i sintomi di ansia, depressione, disturbi psicosomatici, della sfera sessuale o del comportamento alimentare.
Durante i gruppi il conduttore può valutare aspetti della personalità dei singoli ed il loro modo di rapportarsi agli altri, aggiungendo indicazioni utili ad un inquadramento diagnostico.
Sarà anche possibile esplorare eventi passati che abbiano potuto determinare la sintomatologia attuale. Il lavoro con esperienze passate può essere svolto con diverse tecniche: esplorazione di contenuti inconsci o dei sogni, con tecniche di interpretazione, dipendendo queste dal contesto di riferimento del conduttore.
Anche nei pazienti ambulatoriali lo scopo di una terapia di gruppo è quello di fornire al paziente una comunità che lo aiuti a superare i suoi sintomi, aumentare la sua autostima, dargli le risorse per progredire in uno sviluppo equilibrato. In un gruppo la persona può sentirsi meno sola nell’affrontare uno stato di malattia; i soggetti di un gruppo possono sviluppare capacità di relazione interpersonale, imparare strategie per risolvere problemi.
I principi della terapia di gruppo possono essere esplorati anche sulla base dei modello di riferimento dei vari indirizzi psicoterapeutici. Ecco alcuni esempi:
1. Secondo il modello analitico, che pone molta enfasi sulla libido e l’aggressività, è l’espressione delle forze inconsce che guida il gruppo. Analogamente a quello che avviene per lo sviluppo dell’individuo si possono riconoscere anche nel gruppo le fasi orale, anale, fallica e genitale. La particolare situazione del gruppo offre terreno fertile per i processi di proiezione e re-introiezione di parti di sé. Inoltre per le sue potenzialità di empatia e di fungere da specchio può servire nel processo di oggettualizzazione del sé. Vi è una particolare sinergia per cui ognuno è influenzato e a sua volta influenza gli altri in un continuo processo di transfert.
2. Secondo il modello psicodinamico il gruppo offre oltre alla possibilità del transfert verticale, col terapeuta, anche una molteplicità di transfert in orizzontale sia con gli altri membri che con il gruppo nel suo insieme. Lo sviluppo del processo in un setting di gruppo presenta analogie con il meccanismo delle libere associazioni, che in questo contesto tuttavia supera il livello intrapsichico interessando anche i piani dei rapporti con gli altri membri e con il terapeuta. Inoltre ogni membro contiene le proiezioni di un altro membro del gruppo e può divenire il partecipe inconscio dell’identificazione proiettiva di un altro. In questo complesso meccanismo nei diversi eventi, che riguardano i vari membri del gruppo, ognuno può prendere consapevolezza dei propri meccanismi di proiezione e spostamento arrivando gradualmete ad integrare le parti di sé. In definitiva le molte forze in campo fanno si che il gruppo operi alla massima capacità a beneficio di ogni membro. In un certo senso il processo del gruppo è sia un prodotto che un agente del processo analitico condotto nel gruppo. Benchè all’inizio vi fossero dei dubbi sull’opportunità di portare nei gruppi i soggetti più gravi sembra che nei pazienti più regrediti, anche in fase pre-edipica, il gruppo mitighi la tendenza alla regressione.
3. Per i teorici dell’approccio cognitivo-comportamentale il gruppo offre l’opportunità di ripensare vecchi schemi e distorsioni cognitive. Inoltre esso si trova ad esercitare la funzione sociale di influenzare postivamente il comportamento tramite meccanismi di rinforzo di comportamenti più adeguati. In questo modo possono essere acquisite anche nuove competenze. In tale contesto inoltre è possibile sperimentare i nuovi comportamenti appresi. Gli altri membri operano il rinforzo per continuare a migliorare il proprio comportamento. Il gruppo fornisce anche un contesto per un esame di realtà in cui il paziente prende consapevolezza dei suoi comportamenti maladattivi.
4. Il modello della gestalt (e, in senso lato, quello dei gruppi esperienziali), si basa sull’esperienza del momento presente e sul concetto che la conoscenza di sé può avvenire solo in rapporto al campo in cui si opera. Trova piena espressione nella terapia di gruppo, anche grazie al suo richiamo alla teoria lewiniana del campo. Lavorando con il paziente il terapeuta usa l’intero gruppo come un contenitore di supporto e come stimolo per lo sviluppo clinico del soggetto.
Vi sono poi gruppi di terapia focalizzati su un problema specifico, come è il caso dei gruppi di pazienti con malattie croniche quali il diabete o tumori, o soggetti che hanno sperimentato particolari eventi stressanti o con disturbi psicologici quali i disturbi dell’alimentazione o altro. In questi casi il gruppo offre l’opportunità ai membri di condividere la propria esperienza con soggetti che possono davvero comprenderli. L’impostazione è simile nei gruppi di auto-aiuto; la loro caratteristica distintiva è che la conduzione viene affidata a soggetti non professionali che hanno seguito un breve training condotto da specialisti. I gruppi di auto-aiuto non hanno una specifica finalità terapeutica quanto piuttosto lo scopo di permettere momenti di condivisione e di sostegno reciproco.
Bibliografia di riferimento:
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