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Psicopatologia

IL DIVIETO DI PENSARE

La coesione che caratterizza la struttura del nucleo familiare non deve tradursi un’unione simbiotico-fusionale che impedisce la diversificazione reciproca. In altre parole, far parte della stessa famiglia non può imporre un divieto di differenziazione, -egoica ed identitaria- a ciascuno dei suoi membri, i quali, proprio a partire dall’indissolubilità biologica e simbolica del legame, devono porre le basi della propria autonomia esistenziale.
È necessario che famiglia utilizzi la coesione reciproca a sostegno della differenziazione, anziché investire patologicamente nella prima per impedire la seconda.
Ma non è sempre così. Vi sono nuclei familiari in cui vige un assoluto divieto di differenziazione, che impone a ciascuno dei membri di conoscersi e riconoscersi nell’altro, sacrificando la propria identità ad una fusionalità indistinta.
La psicodinamica parla di famiglie agglutinate, masse egoiche all’interno delle quali la presenza degli stessi confini psicosomatici appare incerta, se non inesistente, in ottemperanza ad una convinzione simbiotica che vede nella differenziazione una minaccia di sopravvivenza.
– Come intuibile, queste strutture familiari impongono stili educativi narcisisticI che impediscono la creazione di un Sé identitario- motivazionale autonomo. Le risorse vitali dei figli vengono colonizzate dalla presenza di genitori onnipotenti che ne invadono letteralmente le soggettività, in coerenza con un approccio relazionale simbiotico che annulla ogni possibilità di pensiero autoprodotto.
– L’impossibilità differenziante si esprime anche a livello somatico: l’altro è nel Sé e il Sé è nell’altro, senza possibilità alternative. Così tutti conoscono i mali di tutti, un po’ come se si trovassero all’interno dei rispettivi corpi. In risposta a questa percezione patologica collettiva, anche gli strumenti terapeutici risultano gestiti in comunanza, a mezzo di legami altrettanto patologici sui quali si struttura, con il tempo, l’equilibrio dell’intero nucleo familiare. Il male viene curato nell’altro e attraverso l’altro, mediante una proiezione massiva con cui ognuno dei componenti cerca di liquidare l’intensità fagocitante delle proprie angosce.
– A fronte di questo stile relazionale simbiotico fa da riscontro un assoluto distacco emotivo, un vuoto relazionale che impedisce ai componenti di entrare in contatto gli uni con gli altri in maniera autentica. Come spesso avviene all’interno di legami simbiotici, nessuno è realmente interessato alle esigenze degli altri membri, semplicemente perché non è disposto a riconoscerne l’individualità. Ciascuno si serve dell’altro per mantenere in vita il Sé, ma non c’è una reale vicinanza empatica, una volontà sintonizzante e riflessiva nei suoi confronti: la necessità di avere vicino gli altri membri è dettata dall’esigenza altrettanto imperante di controllare un’angoscia di frammentazione che, in caso di allontanamento di uno dei familiari, diventerebbe letteralmente destrutturante.
– I confini della famiglia non possono essere valicati, nè fisicamente né psichicamente, sotto la pressione di un’identità omologante che verrebbe messa a dura prova dalla minima possibilità di rinegoziazione dei ruoli prestabiliti. Gli equilibri di queste famiglie, in apparenza solidi e incrollabili, sono in realtà assolutamente cedevoli, e ben disposti a slatentizzare la propria disfunzionalità di fronte ad ogni minaccia di cambiamento: è sufficiente un evento stressogeno definibile normativo – ad esempio la morte di uno dei componenti, l’uscita di casa di uno dei figli (per studio o per matrimonio), ma anche una separazione o l’insorgenza di una malattia- a destabilizzarne la struttura, talvolta fino a provocarne il crollo. È proprio questa la causa scatenante di break down collassanti prepsicotici, in grado di svelare la natura patologica dei legami familiari e della famiglia stessa.
– In un modello relazionale controllante, nel quale l’esclusione del terzo si rende necessaria a tutelare un modello di pensiero fortemente endogamico, anche l’investimento relazionale risulta fortemente mortificato. Nessuno può inserirsi all’interno della famiglia, se non a mezzo di una relazionalità esteriore, fonte di rapporti altrettanto superficiali e privi di contenuto. Ogni contatto con l’esterno, visto come un tradimento all’unità esclusiva ed escludente del nucleo, viene prudentemente evitato. Ciascuno dei membri ha bisogno dell’altro per sopravvivere. E se la presenza dell’altro viene avvertita come un fattore oppressivo del Sé, lo fa in una modalità del tutto inconscia: magari prendendo la forma di un sintomo, un agito, un pensiero reificato che esprime un disagio non simbolizzato né verbalizzabile. Semplicemente perché mai rielaborato coscientemente. In poche parole, non pensato. Il sintomo si sostituisce così alla relazione, alla parola e al pensiero, divenendo un fattore di mantenimento di una circolarità persecutoria senza sbocchi.

L’OBBEDIENZA AD UN SÉ COLLETTIVO E IL TRAUMA DELLA NON ESPERIENZA

La parola d’ordine di queste famiglie è la passività. Un’immobilità identitaria ed emotiva che vede nella differenziazione dei Sé un rischio insopprimibile.
Nessuno può allontanarsi. Né fisicamente né psichicamente: una fissità relazionale imprescindibile ha siderato il nucleo ipseico di ognuno dei componenti, svuotandolo di contenuti desideranti, e dunque di energia vitale.
Il divieto di pensare, nello specifico, è dovuto all’impossibilità di avere accesso ad una dimensione immaginativa, ad uno spazio transizionale tra fantasia e realtà, a quel luogo narrativo del Sé che ispira la creatività e l’astrazione consentendo la simbolizzazione di affetti, emozioni e legami.
Il nucleo patologico di questi modelli familiari risiede proprio nel divieto di prendere contatto con il Sé pensato. E se è vero che una cosa non pensata non può essere vissuta, è altrettanto legittimo affermare come il divieto di pensare si trasformi in un implicito divieto di vivere.
Contenuti all’interno di contenitori erosivi del Sè, questi nuclei familiari conoscono un’esperienza traumatica nell’obbligo della non esperienza, che impone la lealtà invisibile a schemi fusionali trasmessi in via transgenerazionale, impedendo la de identificazione reciproca. Da qui l’annientamento del nucleo motivazionale- poietico, appannaggio di un Sé collettivo inconoscibile che colonizza le identità dei singoli dopo averle depauperate di contenuti e potenzialità.
E di nuovo il paradosso: la presenza dell’altro indistinto, apparentemente necessaria alla sopravvivenza reciproca, si tramuta in un fantasma persecutorio, un oggetto ostruente in grado di impedire la scalata al Sé, la conquista dell’autonomia e dell’emancipazione salvifica.

BIBLIOGRAFIA

Bleger, J. (2011) Psicologia e psicoigiene istituzionale, psicoanalisi applicata agli individui, alle istituzioni, ai gruppi, Edizioni La Meridiana, Bari;
Losso, R. ( 2010) Psicoanalisi dela famiglia. Percorsi teorico clinici, FRANCO Angeli, Milano;
Nicolò, A.M. ( 2021) Psicoanalisi dei breakdown e delle soluzioni difensive Raffaello Cortina, Milano;
Nicolò, A.M., Trapanese, G. ( 2005) Quale psicoanalisi per la famiglia? Franco Angeli, Milano;

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m. rebecca farsi

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