E se Dio fosse una donna?si chiede Juan senza immutarsi, guarda, guarda, se Dio fosse donna e’ possibile che gnostici ed atei ci diremmo no con la testa e diremmo si con le viscere.
Forse ci avvicineremmo alla sua divina nudità per baciare i suoi piedi non di bronzo, il suo pube non di pietra, le sue tette non di marmo, le sue labbra non di gesso.
Se Dio fosse donna l’abbracceremmo per strapparla dalla sua lontananza e non ci sarebbe da giurare fino a che la morte ci separi giacché sarebbe immortale per antonomasia e invece di trasmetterci Aids o panico ci contagerebbe la sua immortalità.
Se Dio fosse donna non si installerebbe lontana nel regno dei cieli, ma ci aspetterebbe nel vestibolo dell’inferno, con le sue braccia non chiuse, la sua rosa non di plastico e il suo amore non di angeli.
Ah, mio Dio, mio Dio se per sempre e da sempre fossi una donna che bello scandalo sarebbe, che felice, splendida, impossibile, prodigiosa bestemmia.
Mario Benedetti ( Uruguay 1920) biografia ed opere in : http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Benedetti
Una delle maggiori perdite, del panorama artistico attuale, è una sempre più abbondante produzione di immagini prive di simbolismo oltre che di contenuti.
Questa mancanza di consistenza e di mistero, si discosta enormemente da quelle forme di rappresentazione artistica che in quanto a forza ed intensità avevano la qualità di un lampo di luce che taglia il buio dell’incoscienza.
Non a caso, gli antichi greci utilizzavano parola “symballein” che significa unire alla radice; al simbolo dunque, era attribuita una valenza unificatrice tra verità nascoste ad altre più ovvie.
Per i latini, invece, l’utilizzo della parola“tesserae”, mette in luce che l’evoluzione della coscienza si muove secondo una specifica traiettoria che, parte dal buio dell’ignoranza per dirigersi verso la luce della conoscenza grazie a piccoli tasselli di sapere.
In entrambe le interpretazioni possiamo notare che il processo evolutivo delle nostre coscienze, è simile ad un paziente mosaico di tessere dove, grazie ad una paziente composizione, si giunge a conferire senso alle nostre misteriose esistenze.
Nel corso della storia la religione e la psicologia, hanno assolto il compito di custodire, preservare ed illustrare il reame del simbolico; ci hanno fatto comprendere che il linguaggio primordiale spirituale dell’umanità è di natura simbolica, e che il mito è alla sua origine: la parola che accompagna il gesto rituale.
Gli esseri umani pensano con le parole ma comprendono ed integrano attraverso i simboli. Se mettiamo a confronto simboli e credenze è più che evidente che i simboli possiedono una immensa possibilità di esplorazione mentale, grazie all’illimitata associazione di idee e di emozioni che essi possono suggerirci.
I simboli hanno la forza di liberarci dal conformismo delle idee e delle immagini preconfezionate, sempre più spesso elaborate a tavolino, grazie al sussidio di tecniche sempre più sofisticate ma incapaci di produrre immagini significative in cui possa albergare anche la minima traccia di spirito.
Siamo costantemente bombardati da immagini che sembrano stanchi cloni di se stesse. Forme e segni sterili, improbabili nel suscitare concatenamenti visionari e men che meno idonee a dar vita ad emozioni profonde, a parte, nel migliore dei casi, quel sentimentalismo a buon mercato che oramai sempre più è alla portata di tutti.
Queste sterili immagini hanno sempre più la tendenza ad uniformarsi a quelle che abbondano nelle riviste di moda e che animano il mondo della pubblicità. Volti e corpi seriali tutti della stessa forma e consistenza molto più simili ad oggetti piuttosto che a creature dotate di anima e corpo; tanto che a volte si fa persino fatica a distinguere tra una donna e la carrozzeria di un’auto, tra una persona ed una altra, tra un bimbo ed un adulto, e persino tra un oggetto commestibile ed uno che non lo è.
Il filosofo Merleau Ponty sostiene che la scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle; la stessa sorte sembra essere toccata al mondo dell’arte dove la tecnologia ha notevolmente influenzato il modo di percepire e rappresentare, a totale svantaggio della pienezza di vitalità, emozioni e significato.
Contrariamente alle opere dei nostri predecessori, dove le rappresentazioni avevano una forza irrompente, erano fortemente caratterizzate da un senso di unicità, si ammantavano di simbolismo e reconditi significati e ci invitavano ad inoltrarci oltre l’ovvio.
Perché dunque, è sempre più diffusa la tendenza a produrre immagini superficiali e scontate? Perché le immagini che ci circondano sono sempre più spesso prive di quell’elemento fondamentale che Roland Barthes avrebbe definito : “punctum”
Perché abbiamo smesso di volere un’arte al servizio della totalità dell’uomo? Giammai deprivata della sua sacralità e che non sia un mero prodotto commerciale sbiancato disinfettato e deprivato di ogni accenno di vita reale, e di ambizione verso l’assoluto?
La vita è un alternarsi di morte e rinascita, ma soprattutto è un grande mistero, l’arte ha in passato tentato di riportaci a questa realtà che costituisce da sempre una notevole fonte di angoscia per l’umanità, Tuttavia, nel momento in cui l’arte ha smesso di creare una comunicazione, cioè di rimandare ad altro e soprattutto di toccare le nostre parti più profonde, essa è divenuta impotente ed incapace di promuovere intimità e conoscenza.
Si è trasformata in un atto fine a se stesso, con la priorità assoluta di stupire, di gettare polvere negli occhi, o di produrre un superficiale appagamento estetico, senza preoccuparsi minimamente di indurre alcuna riflessione, senza rischiare di produrre alcun cambiamento esistenziale.
La capacità di accesso al mondo dei simboli necessita un movimento di introspezione che consenta la visione interiore, l’insight, solo allora è possibile contattare le nostre parti più oscure, le sensazioni sommerse, che compongono il nostro tesoro interiore: la nostra anima.
Rilke sosteneva che una opera d’arte nasce da una necessità ma questa necessità è spesso oscura, e si fa sentire attraverso lo spasimo della sofferenza che, attraverso uno stretto cunicolo tenta di arrivare alla superficie grazie alla rappresentazione.
L’arte nel passato aveva la funzione di medium, un ponte tra interno ed esterno, e l’arte ricca di simbolismo dei nostri antenati lo ha sempre avuto presente come priorità prefiggendosi una ricerca continua di immagini eterne, in grado di legare modelli di realtà interiore ed esteriore, ma soprattutto di comunicare a livello psichico profondo, l’essenza del nostro esistere, in bilico tra la paura e l’angoscia che derivano dai limiti del corpo e della natura e l’ambizione di trascendenza ed assoluto delle nostre anime.
La vita umana è ben poca cosa quando la capacità visionaria si impoverisce, e allorquando i simboli hanno esaurito la loro forza di rimescolare l’inconscio, siamo costretti ad abbandonarli come succede ai giorni nostri oppure raccoglier la sfida e l’onere di trasformarli ed adeguarli alle nuove realtà.
Nelle società primitive nel momento in cui i loro valori spirituali sono esposti all’impatto della civilizzazione moderna, la vita dei loro membri viene deprivata dei suoi simboli, che vengono sostituiti dalla seduzione di una vita facile comoda e senza sofferenza. Non c’è poi da stupirsi se queste società sprofondano in un grande senso di smarrimento, se le persone finiscono con il il perdere il senso delle loro vite e se la loro organizzazione sociale si disintegra a favore di una triste decadenza morale.
La medesima deprimente tendenza è sotto gli occhi di tutti anche in campo artistico, l’inaridimento del sentire è sempre più tangibile e sempre più di frequente si assiste ad una progressiva promozione di superficialità, volgarità, ipocrisia ed una qualificata assenza di talento a parte quello dell’inganno e della manipolazione.
La ripetizione fino alla noia di formule sicure, ha deprivato ogni forma di espressione della sua vitalità, rendendola vuota e ripetitiva.
Forse però non è troppo tardi; forse è ancora possibile fare nostri i consigli che Rilke dava al giovane poeta quando lo spronava guardare dentro di se, forse possiamo ancora chiederci: Qual è l’intima ragione che ci spinge a rappresentare, il motivo che intima il nostro gesto espressivo? Forse è ancora possibile spegnere la luce, uscire dalla noia, immergerci in noi, reinventare e reinterpretare la forza dei simboli portandoli alla luce della nostra attuale realtà, forse è ancora possibile dar vita a visioni che più di centomila parole, teorie e dogmi siano in grado di muoverci e trasformarci.
E’ una sfida che mette alla prova le nostre capacità di scavo interiore, ma ne vale la pena dal momento che mediante la rievocazione e la reinvocazione della nostra intima realtà spirituale è possibile attivare intuizioni profonde e nuove visioni relative a quei temi che da sempre sono di vitale importanza per l’individuo e la società.
Rilke sosteneva che gran parte delle esperienze sono indicibili, impalpabili accadono in un luogo in cui la parola non entra; sarebbe una grande ricchezza per tutti se le cosiddette opere d’arte potessero tuttora collocarsi in questo spazio per poterci misteriosamente accompagnare nel corso del tempo oltre l’esiguo limite delle nostre esistenze.