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Lo Stereotipo

Un rapido sguardo intorno a noi, alla realtà che ci circonda e alle relazioni in cui ci troviamo quotidianamente coinvolti, ci mostra un mondo multiforme, ricchissimo di sfumature e differenze: come si orienta, quindi, l’individuo in tanta complessità? Come si costruisce il proprio bagaglio di conoscenze, senza disperdersi nelle numerose dimensioni del proprio mondo?
La prima risposta, quella più intuitiva, spesso è anche quella più giusta, cioè: attraverso la semplificazione di ciò che lo circonda e che deve capire per conoscere e fare proprio.
Questa semplificazione avviene attraverso dei processi cognitivi che affondano le proprie radici nelle meccaniche di formazione e di utilizzo degli stereotipi. Lo stereotipo, infatti, si configura come una rappresentazione semplificata di realtà riguardanti certe categorie di individui o certi tipi di situazioni, e ne evidenzia le caratteristiche peculiari e distintive al fine di renderle identificabili e, successivamente, interpretabili (Villani 2005).
Il loro utilizzo permette un’immediata lettura dell’ambiente all’interno del quale gravitano i soggetti, e serve loro come guida nell’impostazione dei loro rapporti attraverso la creazione di precise categorizzazioni. Gli individui, infatti, inseriscono in queste griglie cognitive semplificate temi e soggetti, riuscendo così, sia ad orientarsi nelle varie situazioni, sia a facilitare l’indirizzo delle proprie relazioni.
Spesso la rappresentazione stereotipata è arricchita di aspetti valutativi e affettivi, ad esempio: positivo-negativo o bene-male, che segnalano alla persona che ne fa uso, quali siano gli aspetti rilevanti o irrilevanti, o quelli favorevoli o sfavorevoli, delle cose.
La natura di criteri di semplificazione della realtà, tipica degli stereotipi porta spesso, nel senso comune, ad assimilarli, se non addirittura ad usarli come loro sinonimo, al pregiudizio. Questo perché, a prima vista, una rappresentazione semplificata rischia di apparire superficiale e di costituire, quindi, fertile terreno per lo sviluppo di atteggiamenti di diffidenza fondati sul pregiudizio. In realtà, stereotipo e pregiudizio, pur non costituendo assolutamente lo stesso concetto, sono molto intimamente legati tra loro: si può dire, infatti, che il primo costituisca il presupposto cognitivo del secondo, ma per ciò che concerne più specificatamente il pregiudizio si rimanda al paragrafo seguente.
Il tema dello stereotipo è stato uno dei primi temi trattati dalla psicologia sociale e il suo approccio si è suddiviso in due essenziali prospettive interpretative contraddistinte da due ben delineati atteggiamenti di valutazione in merito.
Il primo filone di ricerca si rifà ad una considerazione dello stereotipo come elemento negativo: ad una sua concezione come semplificazione a priori, fondata su un impressione fissa e rigida, che spesso può dimostrarsi essere scorretta e inadeguata.
Uno dei primi sostenitori di questa linea teorica è stato il giornalista Walter Lippmann nel suo “Public Opinion” del 1922. Secondo Lippmann, infatti, gli stereotipi sociali non erano altro che rigide generalizzazioni costruite sui vari gruppi sociali, dal carattere presumibilmente tendenzioso e distorto. Per la costruzione della propria idea di stereotipo (egli) si era riferito al significato originario della parola, ovvero, quello di stampo tipografico: il modello iniziale da cui derivavano tutte le copie uguali del giornale. Ecco, quindi, come uno stereotipo che qualifica un gruppo o un individuo, diviene piuttosto uno stigma fermo e identificativo, esteso a tutti gli appartenenti ad una certa categoria.
In questo modo, il processo di stereotipizzazione sembra essere esente da qualsiasi contatto con la realtà e, di conseguenza, poco sensibile ai suoi cambiamenti.
Sia la variabilità individuale relativa alla considerazione delle situazioni e degli altri individui, sia quella relativa agli individui tra di loro, che comunque presentano delle differenze particolari anche se appartenenti ad una stessa categoria sociale o ad uno stesso gruppo, si anhttp:\\/\\/psicolab.netano in questi processi arbitrari di parziale rappresentazione del mondo.
Un passo più approfondito nella considerazione del tema, fu fatto dalle ricerche di Katz e Braly (1933), che cercarono di misurare le credenze stereotipiche e di analizzare il loro contenuto in relazione all’etnia e alla razza. Le conclusioni a cui arrivarono i due studiosi, non si distanziarono molto dalla visione negativa di Lippmann, ma alcune delle loro scoperte rimangono sicuramente degne di menzione, prima tra tutte, quella relativa all’apporto dei media nel processo sociale di costruzione degli stereotipi. Questi si esplicavano attraverso l’associazione, fatta eseguire da un campione di studenti bianchi della Princeton University, di gruppi di aggettivi relativi alla personalità, come ad esempio: artistico, laborioso, pigro, superstizioso, scaltro ecc… a gruppi di differenti etnie: italiani, ebrei, afro-americani, tedeschi ecc… Gli italiani, ad esempio, risultarono focosi e dal temperamento artistico, gli ebrei scaltri e attaccati ai soldi, gli afro-americani pigri e superstiziosi e i tedeschi laboriosi e razionali.
Le generalizzazioni emerse da queste associazioni aggettivo-gruppo etnico, apparvero, e tuttora appaiono, immediatamente evidenti e, in più, si riscontrò come i mezzi di comunicazione avessero contribuito a condizionare tali processi d’associazione attraverso la loro rappresentazione delle varie etnie.
Tutto questo faceva pensare che gli stereotipi venissero formati, e in seguito acquisiti, tramite i contenuti e le immagini proposte dai mezzi di comunicazione di massa, oltre che per le tradizionali vie di comunicazione del bagaglio cognitivo, trasmesso attraverso il processo di socializzazione.
La seconda linea di ricerca, invece, appare diametralmente opposta alla precedente: lo stereotipo, infatti, viene interpretato come un fenomeno normale e connaturato all’attività cognitiva degli individui e che risente, nella sua costruzione e nelle forme di identificazione che propone, sia del loro contesto socio-culturale d’appartenenza, sia dei rapporti che si vengono a instaurare tra i vari gruppi (Villani 2005).
Il taglio di questa seconda prospettiva si presenta, evidentemente, più sociologico, in quanto tiene conto di tutta una serie di variabili di tipo intersoggettivo e contestuale che non erano state considerate in modo approfondito nelle disamine precedenti.
Così, lo stereotipo, nella sua considerazione, passa da fenomeno granitico a rappresentazione flessibile e relativa della realtà. I fenomeni di rappresentazione stereotipata delle categorie sociali, delle situazioni o delle relazioni intersoggettive, appaiono variabili nel tempo, a seconda dei codici normativo-culturali di riferimento, ma anche del gruppo d’appartenenza e della natura delle interazioni che si vanno a creare tra gli individui, evidenziando la natura più marcatamente sociale di questo tipo di approccio.
La teoria più rappresentativa di questo filone teorico è quella degli psicologi sociali Turner e Tajifel (1979) sull’identità sociale degli individui. L’identità di un individuo, infatti, si struttura in due componenti diverse: quella strettamente soggettiva, relativa alla propria essenza peculiare fatta di esperienze personali e caratteri distintivi della propria specificità, e quella sociale, discendente, invece, dalle appartenenze sociali particolari del singolo (“sono uno studente”, “sono un lavoratore” ecc..).
L’identità sociale permette all’individuo di derivare la propria immagine di sé anche attraverso la consapevolezza di appartenere ad un certo gruppo o ad una certa categoria sociale, che ne definiscono alcuni dei tratti caratteristici.
Anche Goffmann (1983), trattando il tema dei processi di stigmatizzazione e delle reazioni sociali in merito, fa riferimento all’importanza del concetto di identità sociale che, però, analizza attraverso un ulteriore dicotomia descrittiva. L’identità sociale, infatti, si divide, a sua volta, in due dimensioni che lo studioso definisce: identità sociale virtuale e identità sociale attualizzata. La prima è composta da tutti quei requisiti effettuali, determinabili a priori, che gli individui si aspettano di trovare negli altri sulla base del loro ruolo o della loro posizione occupata formalmente nella società, la seconda, invece, rappresenta, in pratica, la categoria a cui è possibile dimostrare l’appartenenza di un certo soggetto e permette la legittima attribuzione, a quello, di determinate caratteristiche.
Sarà interesse dell’individuo raggiungere e mantenere un’identità sociale positiva e per questo motivo, egli, cercherà di appartenere a uno o più gruppi socialmente valutati in maniera favorevole in base al confronto sociale. A rendere desiderabile un certo tipo di status sociale non è solo il valore riconosciuto che viene deputato ad una certa appartenenza, ma anche il significato emotivo di realizzazione che l’individuo gli attribuisce. Ecco allora che il panorama sociale si frantuma in una miriade di gruppi contrapposti tra loro che vengono definiti ingroups e outgroups, ognuno dei quali punta alla propria affermazione di status e si definisce in contrapposizione con l’altro: il Noi, infatti, non riuscirebbe ad acquisire né consistenza né importanza, se non si mettesse a confronto con un Loro da cui differenziarsi. L’ingroup, cioè il gruppo d’appartenenza, è, per ovvie ragioni, considerato in maniera positiva, mentre l’outgrup, in maniera negativa: il Noi è sempre migliore del Loro.
L’ipotesi chiave di questa teoria è quella secondo cui le discriminazioni intergruppi e l’attivazione di stereotipi negativi verso l’outgroup, derivino, nei componenti dell’ingroup, dal desiderio di raggiungere e mantenere un’identità sociale positiva, facendo dello stereotipo un aiuto utile a questo scopo. Il singolo ha bisogno dello stereotipo per la sua strutturazione cognitiva dell’ambiente sociale che lo circonda, ma è necessario anche al gruppo, per preservare e mantenere una differenziazione valutata positivamente nel rapporto tra in o out (Villani 2005)

A questo proposito è interessante guardare all’etimologia greca della parola stereotipo, che viene da: stereos, che significa rigido o permanente, e tupos, che significa impronta, quindi, “impronta rigida”: modello immutabile.

Cfr. Katz, Braly 1933, pp. 280-290.

Cfr. • Katz I., Braly K. 1933, Racial stereotypes in one hundered college students, in Journal of Abnormal and Social Psychology N° 72.

Cfr. Tajifel & Turner, pp 33-47.

Cfr. Goffmann, pp. 2-4.

Ovviamente la formazione aprioristica di queste immagini stereotipate relative alle qualifiche particolari delle varie categorie sociali è costruita sulla base delle normative previste dal codice culturale di riferimento.

Cfr. Barbato, pag. 18.
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Giulia Moretti

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