Il processo della moda è l’espressione del gusto collettivo, che inizialmente è un insieme confuso e indeterminato di inclinazioni. A questo il sistema offre possibili linee lungo le quali i gusti individuali possono assumere una forma definita. Il gusto collettivo è il protagonista del processo di selezione e strutturazione, che caratterizza il ciclo della moda, e attribuisce a questo una specifica funzione sociale.
La moda è prima di tutto un linguaggio da utilizzare per distinguersi dagli altri.
Negli ultimi decenni è anche divenuto un fenomeno economico che produce un giro d’affari consistente. Possiamo quindi affermare che il settore moda ha una doppia anima, una simbolica ed una economica, e queste diventano due ambiti di competizione per le aziende. Infatti nel primo caso la competizione riguarda la creatività e quindi la capacità dell’azienda di influenzare col proprio stile, mentre il secondo riguarda la competizione a livello di fatturati, utili e quote di mercato.
Nel giro di pochi decenni il fenomeno moda si è diffuso dallo specifico segmento dell’abbigliamento a segmenti di consumo sempre più estesi, come quello degli accessori, dando la possibilità alle imprese di produzione di puntare su un numero maggiore di prodotti. Basti pensare ai fatturati che le imprese raggiungono ogni anno grazie al commercio di borse e scarpe, più che di abiti di prét-à-porter.
Se in passato il sistema imponeva all’individuo cosa era di moda e cosa no, oggi, nonostante il perdurare di un certo tipo di imposizione nel settore, il consumatore tende a costruirsi la propria moda. Acquista marche e prodotti diversi, abbinando una borsa Prada con una maglietta Zara, per esprimere una propria personalità ed un proprio stile, divenendo il vero creativo. Questo può essere confermato dalla nascita di figure professionali quali il cool hunter, che va per le strade delle grandi metropoli, e non solo, alla ricerca di nuove tendenze da lanciare.
L’uomo, infatti, è una creatura inserita in un processo evolutivo, non solo per quanto riguarda l’aspetto fisico, ma, soprattutto, in ambito culturale, comportamentale, psicologico e sociale.
L’individuo si veste per conseguenza di tre fattori: protezione, pudore e ornamento, ma, quest’ultimo, è diventato il tratto più significativo, tanto che si è voluto riferire il termine vestiario a quanto può proteggere e costume a ciò che può ornare (Flügel J., 1972).
La moda può essere considerata sotto un duplice aspetto: come fatto di costume, elaborato artificialmente da specialisti per evidenziare la cultura di appartenenza e come fatto di abbigliamento, riproducendo il modello ideato per commerciarlo. L’abito, in generale, deve essere analizzato come un fatto culturale, un prodotto creativo della società, visto come un modello sociale, un’immagine standardizzata di comportamenti collettivi inattesi.
Il mondo della comunicazione non verbale è di sconfinata ampiezza e, per questo motivo, non deve stupire l’esistenza di una scienza della moda e dell’abbigliamento in possesso di un’articolata forma di comunicazione e dotata di un linguaggio elaborato. L’abito, infatti, è caratterizzato da segni che celano un significato, più o meno palese, utilizzato dagli individui per la realizzazione di scambi interindividuali definibili relations in public.
In alcuni casi, come quello della moda, l’oggetto perde la sua funzionalità fisica, e acquista il valore comunicativo in modo così chiaro, da diventare, anzitutto, segno e conservare la sua reale natura di oggetto solo in seconda istanza. Un esempio può essere l’abito colorato delle donne nel Rinascimento, nato come moda e diventato, in seguito, segno distintivo delle meretrici; o, ancora, l’attribuzione dei colori, rosa per le femmine e blu per i maschi, o del nero per il lutto. Tutti segni artificiali che, pur prodotti volontariamente dall’uomo, si stratificano e diventano una sorta di radiografia che permette di penetrare e analizzare la cultura di un popolo. L’abbigliamento, quindi, “parla”, riposa su convenzioni e codici, molti dei quali sono robusti, intoccabili.
Età, sesso, etnia, religione, molteplici sono i messaggi che l’abito riesce a veicolare mostrandosi come il “biglietto da visita” di chi lo indossa. Le motivazioni di fronte alla moda sono contraddittorie e oscillano tra quelle orientate verso la socializzazione e quelle narcisistiche, di “coccolamento” dell’io; il gruppo di riferimento e la creatività illusoria, rappresentano, pertanto, i punti focali che inducono alla scelta dell’abbigliamento.
Chi si veste stimolato sia dalle influenze esterne sia dal desiderio di sentirsi unico e originale, si muove nel mondo affascinante e frustrante del fashion; in tale ambiente vivono non solo gli stati d’animo generati dall’oppressione e dall’imposizione di una classe sociale ma, anche, gli atteggiamenti ludici nati dal desiderio di gratificazione e dal fascino personale.
Si è alla ricerca della rivincita per sé stessi, un modo per poter emergere dal buio dell’omologazione e dell’accettazione, si cerca un abito che conceda una rivalutazione del suo essere come individuo e come classe sociale, un indumento, insomma, che diventi manifesto della sua identità come, ad esempio, è stata la minigonna negli anni della contestazione femminile.
Il vestito concede sempre un’interpretazione, funge da tramite, filtro o amplificatore del contesto nel quale è inserito, non appare mai neutro o, peggio ancora, insignificante.
Tra le caratteristiche interpretative, però, non può essere enumerata quella della veridicità: l’abbigliamento esprime solo ciò che l’individuo desidera comunicare, suscita reazioni insolite e, spesso, menzognere (Squicciarino N., 1986).
Ogni essere umano elabora, a seconda della cultura di appartenenza, un atteggiamento verso la rappresentazione di sé. Ogni individuo possiede un personale modo di presentare al mondo, dunque agli altri, ma anche a se stesso, la propria immagine. E lo fa con un linguaggio a sé congeniale. Questo rappresentarsi si rivolge ad ambiti diversi e coinvolge dunque linguaggi diversi, come il modo di vestire, il linguaggio verbale, il linguaggio corporeo, etc. Nel mondo occidentale contemporaneo, tutto ciò è particolarmente evidente, poiché l’immagine che ciascuno offre di sé è il primo biglietto da visita che si presenta all’interlocutore.
Si può comprendere la necessità di un rapporto molto stretto tra il sé e la persona che lo “indossa”; i vestiti diventano una “seconda pelle”, un’estensione del corpo, assumono la stessa funzione comunicativa non verbale, che si sviluppa in modo generalmente volontario e, talvolta, inconsapevole.
L’abito indossato mostra sia l’appropriatezza al ruolo sociale che si vuole rappresentare sia dimensioni della personalità, ugualmente importanti, come l’essere attraenti, in buona salute, gioiosi e così via.
L’uso di determinati capi permette all’individuo di fingersi ciò che non è. E’ il “gioco obbligatorio” al quale nessuno può sottrarsi, anche se ciò contrasta con le regole arbitrarie del gioco stesso (Volli U., 1988). La moda indirizza verso l’imitazione senza, però, perdere la sua dimensione ludica. Col passare del tempo, le differenti correnti di pensiero, si sono frammentate e confuse tra loro, scatenando una “guerriglia”, la cui sola consapevolezza è il sapere che si gioca.
Strumento necessario per cogliere la complessità del mondo odierno è sicuramente l’analisi dei comportamenti di consumo, carattere ormai proprio di ogni aspetto della vita quotidiana e fenomeno unificante della società post-moderna. Nel corso degli anni Ottanta avvenne una trasformazione culturale che ha introdotto in Italia un nuovo tipo di consumatore post-moderno: avviene la scoperta del valore simbolico dei beni, i quali divengono pienamente capaci di definire, diversamente a quanto avveniva prima, non posizioni sociali ma identità individuali. Le merci connotano ora gli stili individuali. Si parla di “consumismo della distinzione”. Il rapporto con l’oggetto permette la costituzione di un insieme di significati, di un linguaggio sociale, che consente di scambiare informazioni e di dare ordine e senso all’ambiente socio-culturale. Come scrive Fabris, il consumatore egoriferito utilizza delle icone sociali per definire il proprio sé. Si è passati dagli “status symbol” agli “style symbol”, dall’identificazione in un ceto alla differenziazione simbolica di identità.
Con gli anni Novanta cambiano il clima socio-culturale e le condizioni economiche e si verifica un’importante svolta nel consumo: si diffonde un atteggiamento più maturo, imperniato sulla costruzione di un progetto di consumo individuale. Il passaggio ad un tipo di consumo detto “di qualità”, è sicuramente da attribuirsi ad un’evoluzione del consumatore che è divenuto più esperto, pienamente socializzato al consumo e, più maturo, inizia a rifiutare di sottostare ai “diktat” della produzione. Ormai “autonomo” e “competente”, intraprende un dialogo con le imprese e con le merci, in cui egli non è più solo ricettore passivo ma pieno co-protagonista.
Le frontiere del consumo vanno pertanto in una direzione che integra qualitativo e quantitativo, fisico e psichico, polisensualismo e semplicità. Il controllo di sé, il sapere disciplinare il corpo, si accompagnano al sapersi presentare bene, alla gestione dell’apparenza.