Con la collaborazione di Rokaia Jamaa
Durante l’anno scolastico appena terminato, la mia attività di insegnante si è diversificata su più fronti: su quello di sostegno, su quello disciplinare (ho infatti insegnato storia e filosofia) e infine, su quello interculturale, dedicato quest’ultimo ad incontri con studenti di madre lingua non italiana.
Nel mese di febbraio, è stata poi organizzata nella scuola dove ho lavorato, una finestra tecnica, ovvero una settimana nella quale ogni insegnante ha avuto l’opportunità di proporre moduli di approfondimento non strettamente vincolati all’attività curricolare, ma aperti alla conoscenza e alla riflessione della realtà a largo raggio.
In questa circostanza, ho ritenuto utile ed interessante, dedicare uno spazio proprio all’intercultura, lasciando piena libertà di parola a Rokaia, una studentessa di origine marocchina che vive in Italia fin dalla prima infanzia, ma che non dimentica e non vuole dimenticare le origini culturali e religiose del proprio paese di origine.
Il suo intervento si è successivamente tradotto in una testimonianza scritta, nella quale Rokaia racconta alcuni episodi della sua vita in Italia e le iniziali difficoltà ad instaurare relazioni amicali profonde a causa dei radicati pregiudizi di molte persone nei confronti della sua diversità culturale e religiosa, diversità resa ancor più evidente quando la ragazza ha deciso di indossare l’hijab, il velo islamico che copre la testa (e non il volto come il niqab).
In questo articolo riporto per intero le sue parole dalle quali emerge una spiccata capacità da parte di Rokaia di parlare di sé, rivelando in modo genuino, consapevole e libero il proprio pensiero e la scelta di indossare l’hijab.
“Mi chiamo Rokaia, sono una ragazza di 17 anni, di origine e madrelingua marocchina e vivo in Italia da quando avevo circa un anno.
Nonostante abbia trascorso sinora quasi tutta la mia vita in Italia, sentendomi a tutti gli effetti italiana, pur essendo orgogliosa delle mie origini marocchine, percepisco come gli occhi della gente mi vedano ancora come una “diversa”, un’estranea che suscita in loro una condizione di diffidenza e disagio.
Sono caratterialmente molto estroversa e socievole; infatti ho una consistente compagnia di amici; tuttavia, con le persone con le quali, “a pelle”, non mi trovo, tendo a non relazionarmi.
Sono iscritta al secondo anno delle scuole superiori, nel corso di economia e lingue. Con i voti sono in un rapporto di “alti e bassi”, ma nel complesso la mia preparazione scolastica risulta soddisfacente. Per quanto riguarda il mio rapporto con i compagni di scuola, posso dire che nel tempo si è evoluto positivamente.
I primi giorni di scuola, infatti, non riuscivo ad integrarmi bene in classe, poiché notavo come diversi compagni e compagne manifestassero nei miei confronti un forte distacco: mi ritrovai subito isolata, in una folla di sorrisi e scherzi ai quali tutti riuscivano a partecipare tranne io, tutti si coinvolgevano a vicenda, ignorando la mia presenza.
Il tempo ed il mio carattere comunicativo ed espansivo mi hanno comunque permesso di integrarmi con successo in classe, facendo conoscere di me qualità, caratteristiche ed interessi che sono comuni alla gran parte dei miei coetanei, ma che il disagio ed il distacco iniziali avrebbero tenuto nascosti.
Oggi la scuola è diventata per me un luogo di formazione, ma pure di ritrovo amicale poiché le mie due amiche del cuore frequentano la mia stessa classe.
Ancora oggi attribuisco il motivo di questo iniziale distacco da parte dei miei compagni e delle mie compagne, alle mie origini e all’uso del velo, l’hijab. Indossare l’hijab è stata una mia scelta personale e non una costrizione dall’esterno, come il pregiudizio porta a pensare.
L’origine di questa scelta nasce dalla curiosità che fin da bambina manifestai quando, vedendo mia madre indossare i suoi veli, mi rallegravo di fronte alla combinazione ricca e variegata di trame e colori che abbellivano il suo viso, facendomi percepire la bellezza, la fantasia e l’armonia del mondo che mi circondava.
Fuori dalle mura domestiche, la bellezza e la grazia che l’hijab rendeva sul viso di mia madre, non riuscivano tuttavia ad essere colte dalle altre persone.
Queste ultime infatti, notavano in lei solo una diversa appartenenza culturale e sociale, etichettando di conseguenza me come “la bambina con la mamma diversa”.
Di fronte alla diversità, le mie esperienze personali mi hanno portato a capire che spesso le persone tendono a giudicare “un libro dalla copertina”, trascurando le pagine articolate e ricche del mondo interiore che c’è in ognuno di noi.
Verso i 12-13 anni, la curiosità di indossare l’hijab mi ha spinto a provarlo su me stessa. Lo indossai così quasi per un anno intero, fino a quando, giunto il caldo torrido dell’estate, fui spinta a toglierlo e ritornai alle abitudini precedenti.
Un giorno come tanti altri, mi capitò di entrare in un negozio di abbigliamento con mio padre e, mentre stavo scegliendo dei vestiti, il mio occhio cadde su un velo dai colori malinconici dell’autunno. Rimasi subito colpita dalla particolare bellezza di quel velo, tanto che chiesi a mio padre di poterlo acquistare.
Fu a quel punto che egli, presa consapevolezza che stavo crescendo, mi spiegò che indossare l’hijab per la nostra religione ha un significato profondo ed interiore che oltrepassa l’attrazione estetica verso l’oggetto materiale. Ricordo ancora le sue parole: “se non lo vuoi mettere va bene, ma se decidi di metterlo devi sapere che non è un gioco, che un giorno ti piace e la settimana dopo decidi di buttarlo via”.
Da allora, il mio rapporto con l’hijab cambiò.
È molto strano da spiegare…
Non c’è stata una motivazione precisa che mi ha spinto a indossarlo. Decisi però di indagare un po’ più a fondo sull’importanza che esso ha per la religione islamica. Dedicai così molto tempo ad una lettura riflessiva ed approfondita del Corano. Lo lessi in italiano, facendomelo spiegare anche in arabo dai miei genitori.
Si aprì così davanti a me un mondo fino ad allora sconosciuto: capii che dietro la dimensione puramente estetica, l’hijab nascondeva un significato più profondo. In particolare mi soffermai su alcuni versi rimasti indelebili nella mia memoria:
“Non c’è costrizione nella religione (Al Baqara v. 2:256)”1.
“Fa parte dei suoi segni l’aver creato da voi, per voi, delle spose, affinché riposiate presso di loro, e ha stabilito tra voi amore e misericordia…”2 (Corano XXX. Ar-Rûm, 21).
Quando leggo che la religione non ha carattere costrittivo, capisco che nessuno, né padre, né marito, né alcun altro componente della società hanno il diritto naturale o religioso di imporre l’hijab ad una donna.
A questo proposito, ritengo importante citare le parole di una giovane donna musulmana:
“Indossare l’hijab è la nostra libertà: una libertà silenziosa che attesta la nostra sottomissione non agli uomini (finché noi ci preoccupiamo di quello che dicono saremo loro schiave?), ma ad Allah, l’Altissimo, una libertà espressa in un silenzio assordante indossando con fierezza il nostro hijab, camminando a testa alta con lo sguardo rivolto al cielo ed il cuore ad Allah!!
Sorelle…siamo Musulmane e fiere di esserlo? Esiste una regina una corona? E noi siamo le regine di Allah subhanahu wa taala, e l’hijab è la nostra corona, alhamdulillah!!”.3
Come libera è la scelta di indossare l’hijab da parte della donna musulmana, così lo è quella di scegliere il proprio sposo: il matrimonio infatti deve basarsi sulla complicità e complementarità dei ruoli ed anche “sul consenso senza equivoci e l’amore sincero che sfocia nella bontà, nella tenerezza e nella compassione reciproca”4.
Io credo nella mia religione e ogni giorno cerco di approfondire la mia conoscenza a riguardo perché per me essere musulmana significa innanzitutto credere in modo consapevole e libero.
Per fare questo, ritengo sia necessario pensare con la propria testa: l’unica arma possibile per affermare l’autenticità della propria identità individuale e sociale”.
Note
1 Corano, Al Baqara v. 2:256
2 Corano, XXX. Ar-Rûm, 21
3 Testimonianze di donne musulmane (tratte da internet)
4 Ibidem