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Introduzione
Tutti gli uomini ritengono che il pensare sia un’attività spontanea, equivalente al camminare o al respirare. In effetti, da quando il cervello si costituisce nel mondo vitale e come unità operativa di alcuni organismi viventi si può sostenere esista il pensiero. Tuttavia, l’estrema individualità che caratterizza lo stile del pensiero di ognuno, e le differenze esistenti tra i vari individui, suggeriscono l’idea che la capacità di pensare sia suscettibile di modificazioni.
Tutti gli uomini (o quasi tutti…) hanno per anni frequentato i banchi di scuola, apprendendo nozioni, memorizzando fatti e date. Poco tempo si è riservato invece all’apprendere un metodo per apprendere. Sembra che nella scuola viga la certezza che il pensare sia come un sottoprodotto che dovrebbe scaturire spontaneamente, dall’attenzione posta a materie specifiche.
Le questioni riguardanti l’apprendimento in generale e l’acquisizione di un metodo appaiono affascinanti e, al tempo stesso, assai complesse. Con questo breve scritto si vuole ragionare proprio sulla formazione delle idee (miele del nostro cervello) e perché esse siano tanto importanti per gli esseri umani.
Lo scritto è diviso in modo da affrontare la complessità dell’argomento da più punti di vista. In primo luogo, si cerca di analizzare il problema della ragione secondo le diverse concezioni fornite dai più illustri filosofi, per avere una visione ampia e generale di questo argomento; in seguito, si tenta di analizzare gli aspetti collegati alla logica del pensiero e del ragionamento; infine, si considera il ruolo delle idee, in una quotidianità che ne sembra effettivamente sprovvista.
Sulla ragione
Il termine ragione è fondamentale per la filosofia ed assume in essa una molteplicità di significati. Due di essi sono fondamentali, dal nostro punto di vista: a), la ragione intesa in senso metafisico, come principio e fondamento della realtà; b), la ragione, come facoltà del pensiero umano e guida per una condotta etica. Nella filosofia dell’antica Grecia ricorrono entrambi questi significati: il logos designa sia la legge essenziale della realtà sia la capacità dell’uomo di ragionare e di dialogare (da dia-logos, due ragioni oppure due verbi a confronto). In questa seconda accezione la ragione è intesa anche come dianoia, ossia come facoltà discorsiva, contrapponendosi ad intelletto (in greco nous), ossia alla capacità di cogliere intuitivamente le verità prime (da cui muove ogni ragionamento).
La ragione come fondamento della realtà.
In questa accezione, il termine logos fa la sua apparizione nella filosofia di Eraclito, sviluppandosi poi nella filosofia degli stoici. Per questi il logos è la legge che governa tutte le cose. Esso è l’ordine razionale della natura e del cosmo, seguendo il quale l’uomo conduce una vita giusta e felice.
Questa concezione, la cui evoluzione coincide con le diverse riprese del termine logos nella filosofia greca e nel pensiero cristiano dei padri della Chiesa, ritorna anche nella filosofia moderna, anche se in un contesto problematico molto diverso: la filosofia sistematica di G.F. Hegel. Per lui la ragione (denominata anche Idea e Spirito) è la legge immanente della realtà, nel suo sviluppo naturale e storico. Hegel identifica il pensiero (ragione) con l’Essere (realtà). Al tempo stesso, egli situa la ragione (intesa anche come conoscenza dell’Assoluto), al di sopra dell’intelletto, perché questo consiste nella facoltà di astrazione e nella conoscenza del particolare. Dunque, per Hegel la ragione, intesa sia come fondamento della realtà sia come conoscenza della totalità del reale, procede dialetticamente, attraverso antitesi e contraddizioni, e perviene a collegare nella sintesi i diversi momenti della realtà, che l’intelletto invece coglie separatamente. Per il Nostro, mentre l’intelletto considera astrattamente i concetti nelle loro reciproche esclusioni, la ragione è consapevolezza del processo grazie al quale le astratte opposizioni sono poste e superate dalla dialettica dell’Idea. La ragione pertanto non è solo forma che suggelli un contenuto dato, ma è forma che fornisce a sé stessa un contenuto, grazie appunto alla dialettica del principio costitutivo del tutto, l’Idea.
La ragione come facoltà del pensiero umano.
È celebre la definizione che il filosofo greco Aristotele fornisce dell’uomo: animale razionale. Egli concepisce la ragione come la capacità di svolgere correttamente deduzioni di tipo sillogistico, sulla base di alcune premesse. Essa si distingue dall’intelletto, che coglie intuitivamente i fondamenti primi delle scienze, senza avvalersi di passaggi discorsivi. In seguito, sia i filosofi neoplatonici sia Sant’Agostino subordinano la ragione all’intelletto, proprio perché la prima è una conoscenza discorsiva, dunque inferiore alla conoscenza puramente intuitiva del secondo. Per Thomas Aquinas, Dio conosce solo intuitivamente, senza conquistare le verità una alla volta. Dio non utilizza i ragionamenti. Per San Tommaso la separazione dei due campi (ragione e fede) non implica un rapporto di opposizione, perché la fede soccorre laddove la ragione umana, limitata e finita, non può giungere. Ragione e fede hanno dunque ciascuna il proprio ambito. Ciò non significa che le verità dimostrate dalla ragione possano essere in contraddizione con quelle proposte dalla fede.
La Filosofia moderna
Nella filosofia moderna, la ragione è concepita in stretta aderenza ai nuovi problemi della teoria della conoscenza (gnoseologia). In particolare il rapporto tra ragione e intelletto viene inteso in due modi: tra essi non vi è alcuna differenza, cosicché si tratta di due termini diversi che designano lo stesso oggetto; oppure si sostiene che intelletto e ragione siano termini specifici che hanno contenuti concettuali diversi fra loro. In questo ultimo caso, si tratterà allora di stabilire quale tra i due debba avere la priorità sull’altro. Il massimo esponente della prima posizione è Cartesio, il quale considera l’intelletto e la ragione come espressioni generiche riferibili all’attività del pensiero. Secondo questa prospettiva, non esiste un’ipotetica facoltà dell’intelletto e una della ragione, ma, al contrario, esiste solamente una più generale facoltà del pensare, la quale potrà essere ora appellata ragione, ora intelletto, ora coscienza. In questo caso, l’unico elemento di specificità riconoscibile è che questa facoltà è esclusivamente umana, ed è anzi ciò che contraddistingue il nostro genere da quello animale. Solo l’Homo sapiens sapiens, infatti, può esercitare il pensiero. Un’importante conseguenza derivante dall’identificazione di ragione e intelletto è l’impossibilità di distinguere nettamente la funzione conoscitiva da quella pratico-morale, poiché sarà la stessa facoltà del pensare che ora si applica all’ambito teoretico, ora a quello pratico. Cartesio identifica quindi la ragione con il buon senso, per natura uguale in tutti gli uomini, e la definisce come capacità di giudicare e di distinguere il vero dal falso. Questa posizione è sostanzialmente condivisa da Hobbes, da Locke e da Hume, mentre Spinoza se ne allontana. A lui si rifanno gran parte delle posizioni successive fiorite nel Settecento e prevalse dalla fine dell’età dei Lumi in poi. Spinoza ipotizza che l’uomo, attraverso l’intelletto, possa guardare la realtà sub specie aeternitatis, così come la vede Dio, in maniera totalizzante e assoluta. La ragione, dal canto suo, stabilisce soltanto corrette connessioni causali, procedendo discorsivamente, ma non giunge mai alla comprensione unitaria del reale. L’intelletto invece – operante intuitivamente – rivela che tutte quelle cause colte dalla ragione sono effetti di una causa infinita, da cui tutto deriva: Dio. La superiorità dell’intelletto sulla ragione risiede, secondo Spinoza, nella capacità del primo di cogliere la realtà nella sua interezza attraverso un colpo d’occhio intuitivo (dal latino intueor, vedo), pur senza smarrire le infinite differenze che la animano.
L’assenza di opposizione tra ragione e fede, cui abbiamo brevemente accennato, è oltremodo introdotta, sebbene con argomenti diversi, anche da John Locke. Per l’empirista inglese, la ragione è infatti la facoltà in virtù della quale riusciamo a cogliere le concordanze o discordanze tra le idee, non solo tra quelle immediatamente forniteci dai sensi (esterni ed interni) e dall’intuizione, ma anche tra quelle che in media si acquisiscono per associazione e per deduzione. In Locke i concetti di esperienza e idea vengono messi chiaramente a fuoco. Egli intende per idea:
“qualsiasi cosa che sia oggetto dell’intelligenza, quando un uomo pensa, [ovvero] tutto ciò che si intende con fantasma, nozione, specie, o tutto ciò, di qualunque cosa si tratti, intorno a cui può essere impiegato lo spirito quando pensa” (Locke J., in Sini C., 2003:739).
La critica lockiana all’innatismo delle idee è la permessa fondamentale di ogni filosofare critico, basato sull’esperienza psicologica e storica dell’umanità. Al tempo stesso è la premessa di ogni sano empirismo. Tale critica non si limita alle questioni conoscitive e scientifiche, ma riguarda ancor prima e ancor più la morale, la religione, la vita pratica, il costume, i rapporti sociali, etc.
Dal canto suo, Hobbes concepisce invece la ragione come una sorta di calcolo, in grado di operare in termini-numeri universali. Egli, rifacendosi alla tradizione del nominalismo medievale, identifica la funzione della ragione nel sommare nomi o sottrarre nomi da altri nomi. Ad esempio, quando al termine corpo aggiungo i termini anima e ragione ottengo l’idea ed il nome di uomo (almeno così dovrebbe essere…). Quando, viceversa sottraggo al termine uomo il termine ragione ottengo l’idea e il nome di animale. Il ragionamento è quindi un calcolo che combina tra loro le idee della mente e i simboli del linguaggio. Quando tale calcolo è corretto, quando le idee complesse sono ridotte alla somma delle idee semplici, e quando le idee e le parole che le esprimono rispecchiano esattamente la realtà, il ragionamento coglie il vero aspirando alla realizzazione di una azione efficace. Al contrario, si va incontro all’errore e al fallimento dei nostri progetti.
In linea generale, nella filosofia moderna si distinguono due fondamentali indirizzi speculativi, dai quali emerge il concetto di ragione come facoltà conoscitiva: il razionalismo e l’empirismo. Per i filosofi razionalisti, a partire da Cartesio, la ragione opera sulle idee innate con il metodo della dimostrazione e della deduzione. Per i filosofi empiristi, che a partire da Locke rifiutano l’innatismo, essa si rivolge all’esperienza e ai dati sensibili, cercando via via di ordinarli e di collegarli.
Nel pensiero illuministico di filosofi come Voltaire, Diderot e d’Alembert, la ragione è intesa come la suprema istanza critica nei confronti di ogni tradizione e autorità. Per questi pensatori la ragione non costituisce un patrimonio di idee innate, date prima di ogni esperienza (cioè a priori), ma indica veramente una facoltà, ossia una capacità di analisi e di sintesi che si può comprendere soltanto nel suo esercizio e nella sua esplicazione sociale. Questi filosofi inseriscono dunque la ragione all’interno di un ambito sociale che la determina e ne veicola la funzionalità.
La posizione di E. Kant.
Decisivo ed importante per la storia del pensiero occidentale è l’impiego che, nella seconda metà del XVIII secolo, il filosofo tedesco Emmanuel Kant fa del termine ragione. Nella sua Critica della Ragion Pura egli intende tale termine in una triplice accezione: a), come facoltà del conoscere in generale; b) come funzione attiva o spontanea del conoscere, in opposizione alla sensibilità, che è invece una facoltà passiva o ricettiva; c) come terza facoltà, utile alla sensibilità e all’intelletto. In quest’ultimo caso, la ragione cerca di fare a meno dei condizionamenti dell’esperienza, nel tentativo (peraltro infruttuoso) di estendere il suo potere sino a un totale coinvolgimento dell’intelletto, per giungere ad una conoscenza incondizionata e assoluta, unificando e catalogando i fenomeni secondo regole e categorie. In ottica cognitiva questo obiettivo non può essere raggiunto, anche se la ragione si rivela feconda come guida della condotta. In questa accezione, la ragione prescinde dall’esperienza e dalle inclinazioni sensibili dell’uomo, e può diventare il fondamento della legge morale. Essa si esprime nell’imperativo categorico, secondo una massima che ci impone l’adozione di una precisa condotta, valida universalmente, ossia utile per tutti gli uomini e in tutte le circostanze.
Per Kant la ragione è essenzialmente in grado di stimolare la ricerca dell’incondizionato. La ragione promuove questa ricerca, ma una conoscenza assoluta, e cioè indipendente da una qualsiasi condizione presupposta o da un qualsiasi oggetto di esperienza, è per l’uomo impossibile con questa sola facoltà. Le idee di Io, di Mondo e di Dio – ritenute dalla tradizione metafisica in grado di fondare una psicologia razionale, una cosmologia e una teologia razionali – non possiedono un valore costitutivo (non sono adatte cioè a fondare una conoscenza dell’anima, del mondo e di Dio). Queste idee esercitano la sola funzione di regolare l’uso dell’intelletto, nell’indagine sugli oggetti della vita quotidiana. In questo significato, la ragione è la facoltà che offre i principi della conoscenza a priori. Invece l’intelletto fornisce l’unificazione dei fenomeni, grazie all’utilizzazione di regole. La ragione diventa dunque l’unità delle regole sotto principi generali. Inoltre la ragione, nella sua dimensione di guida alla praticità della vita, costituisce il fine della volontà. Essa è pertanto regolativa e per questo determina la volontà, incondizionatamente.
La filosofia contemporanea
Nella filosofia contemporanea ci si appella al concetto di ragione per limitare le pretese metafisiche della tradizione filosofica precedente. Nelle correnti filosofiche di matrice positivistica, la ragione non è più opposta all’intelletto, quanto alla pretesa del pensiero metafisico di una conoscenza esaustiva della realtà, priva di una verifica e di un controllo sperimentali. Nella fenomenologia di Husserl, la conoscenza razionale è strettamente congiunta alla nozione di evidenza, come formalizzazione privilegiata in cui i fenomeni si manifestano intuitivamente alla coscienza.
Tuttavia non sono mancate, nella filosofia del Novecento, posizioni irrazionalistiche. Nel fare riferimento alle idee di A. Schopenhauer, di Soren Kierkegaard e F. Nietzsche, si tenta di limitare o ridimensionare la funzione della ragione rispetto all’intuizione (come nel caso di H. Bergson).

Sulla logica
Sottolineati brevemente i riferimenti filosofici dedicati al concetto di ragione, nelle sue caratteristiche peculiari e secondo alcune fra le diverse accezioni, è possibile concentrarsi ora sul processo che regola la logica del ragionamento. Ma prima è opportuno chiedersi cosa si intende per logica.
Per una definizione del termine logica.
La Logica è la disciplina che indaga i principi di validità del ragionamento e dell’argomentazione deduttiva. Lo studio della logica (dal greco logos, ossia discorso, ragionamento, verbo, studio, parola, etc.) consiste nel tentativo di determinare le condizioni in base alle quali appare giustificato il percorso cognitivo che muove da affermazioni date (definite premesse) ad una serie di conclusioni che si presume ne seguano. La validità logica è quindi una relazione tra le premesse e la conclusione. Quando le premesse sono vere, è vera anche la conclusione.
La validità di una argomentazione va distinta dalla verità della sua conclusione. Quando una o più premesse sono giudicate false, la conclusione di un argomento sia pur valido dovrebbe altresì risultare falsa. Ad esempio, se tutti i mammiferi sono quadrupedi e tutti gli uomini sono mammiferi la logica conseguenza sarà che, tutti gli uomini sono quadrupedi. Si tratta di una argomentazione valida con una conclusione falsa. D’altra canto, un ragionamento non valido potrebbe avere, causalmente, una conclusione vera. Alcuni animali sono bipedi; tutti gli animali bipedi sono uomini. Di conseguenza, tutti gli uomini sono bipedi. Si tratta di un ragionamento non valido con una conclusione vera. La validità logica dipende quindi ed esclusivamente dalla forma del ragionamento e non dal suo contenuto. Quando invece si è in presenza di una deduzione valida, vi sono termini che possono essere sostituiti in ogni occorrenza, senza per questo intaccare la validità del ragionamento. Sostituendo il termine quadrupede con quello di bipede, è evidente che le due premesse possono essere entrambe vere e la conclusione falsa. Ne segue che il ragionamento non è valido, anche se conduce ad una conclusione vera.
La logica aristotelica.
La speculazione scientifico-filosofica elaborata da Aristotele ha la sua premessa nell’Organon, cioè in quella teoria del metodo che prende dopo Aristotele in nome di logica. In effetti, Aristotele è il creatore della logica formale, cioè di una scienza che studia il ragionamento e ne elenca le forme corrette, indipendentemente dal contenuto. Punto di partenza di queste ricerche è indubbiamente la dialettica di Platone, intesa come metodo definitorio. Aristotele però, e sin dall’inizio, pone la fondamentale distinzione tra quei ragionamenti che sono rigorosamente veri e quelli che sono solamente probabili. A questi ultimi in particolare, egli attribuisce il nome di dialettici, mentre definisce i primi apodittici, scientifici, o anche analitici. La dialettica studia le regole generali della discussione e in particolare il campo delle opinioni dei più, dei competenti, e infine, tra i competenti, dei più noti e stimati. Alla dialettica appartengono dunque tutte quelle ricostruzioni storiche che Aristotele premette alle sue opere maggiori, in quanto, prima di affrontare un problema in modo sistematico, egli si propone di considerare ciò che ne hanno pensato i filosofi precedenti. L’analitica in senso stretto studia invece il ragionamento scientifico o apodittico, ossia quel tipo di ragionamento che muovendo da premesse rigorosamente vere, e cioè inconfutabili, perviene ad una conclusione diversa e tuttavia necessaria.
Egli elenca e definisce le parti del ragionamento o sillogismo in cui, poste determinate premesse formulate in forma di proposizione, segue necessariamente qualcosa di diverso da ciò che è stato posto come premessa. Si tratta di una deduzione costituita da proposizioni che possono avere quattro forme:
1. Tutti gli A sono B (universale affermativa).
2. Nessun A è un B (universale negativa).
3. Alcuni A sono B (particolare affermativa).
4. Alcuni A non sono B (particolare negativa).
Secondo lo Stagirita, attraverso la ragione (dianoia) possiamo acquisire conoscenze impiegando i sillogismi, ragionamenti concatenati strutturati in maniera tale che, partendo da due premesse, si perviene ad una conclusione. Ogni premessa possiede un termine in comune con la conclusione e uno in comune con una ulteriore premessa. Si tratta di una forma logico-argomentativa nella quale, a partire da due proposizioni, o premesse, si giunge necessariamente ad una sola conclusione. Ciascuna delle premesse perciò, costituisce, a sua volta, la conclusione di un altro sillogismo, con l’assurda conseguenza che – risalendo la scala di sillogismo in sillogismo – si corre il rischio di incontrare l’infinito. Ed è per scongiurare questo pericolo che Aristotele fa riferimento a premesse che non sono conclusioni di nessun altro sillogismo: i principi. Questi, a differenza delle normali premesse (colte tramite il ragionamento discorsivo, dianoia), possono essere intuitivamente colti dall’intelletto (nous), il quale gode pertanto di una sua superiorità logica e assiologica.
Il ragionamento sillogistico è una deduzione necessaria. Esso consiste di due premesse e una conclusione, in cui entrano in gioco tre termini (i termini del sillogismo sono le lettere A e B). Nelle due premesse è presente un termine medio che consente di connettere fra loro gli altri due termini. L’esempio più classico di sillogismo che Aristotele fornisce è il seguente: “tutti gli uomini sono mortali” (premessa maggiore), “i greci sono uomini” (premessa minore), “i greci sono mortali” (conclusione). Il termine medio, che consente di connettere in maniera necessaria mortali e greci, è ovviamente uomini. Aristotele enuncia inoltre diverse forme di sillogismo, a seconda che le proposizioni costituenti siano affermative o negative, particolari o universali. Nella logica contemporanea il sillogismo di derivazione aristotelica ha perduto la sua posizione esemplare di ragionamento deduttivo, soprattutto dopo l’individuazione di più complessi criteri di inferenza fra le proposizioni.
La logica simbolica
La logica aristotelica non è l’unico modello di logica. Essa è assai influente fino al XVIII secolo, prima che Leibniz ponga le basi della logica formale moderna. Già i filosofi stoici svolgono un modello di logica proposizionale, nella quale la proposizione non è scomposta in termini (come nella logica aristotelica, definita anche terministica), ma costituisce l’unità logica minima, da cui derivano i rapporti con altre proposizioni. Nella logica formale si studiano relazioni di questo tipo: “se p, allora q; p dunque q” (dove “p” sta al posto di una intera proposizione del tipo “c’è il sole” e “q” sta al posto di un’altra proposizione del tipo “è giorno”). L’attenzione si sposta dai termini (come accadeva nel sillogismo aristotelico) ai connettivi fra le proposizioni.
Intorno alla metà del XIX secolo, i matematici inglesi George Boole e Augustus De Morgan (1806-1871) aprono un nuovo campo della logica, ora noto come logica simbolica, sviluppato in seguito dal matematico tedesco Gottlob Frege e dai matematici e filosofi inglesi Bertrand Russell e Alfred North Whitehead nei Principia mathematica (3 voll., 1910-13). Il sistema logico di Russell e Whitehead introduce simboli per le proposizioni complete e per i connettivi proposizionali (ad esempio congiunzioni, disgiunzioni e implicazioni). Presenta inoltre simboli differenziati in base al soggetto logico e al predicato logico di una proposizione. Possiede simboli per le classi, per i membri delle classi e per le relazioni di appartenenza a una classe e di inclusione tra classi. Si differenzia dalla logica classica anche in riferimento all’esistenza delle cose nelle sue asserzioni universali. Ad esempio, la proposizione “Tutti gli A sono B” nella logica simbolica è tradotta in “Se esiste un A, allora è un B”, che, a differenza della logica classica, non presuppone l’esistenza di qualche A.
Secondo l’opinione di Bertrand Russell:
“la parola causa è legata tanto inestricabilmente a idee equivoche da rendere auspicabile la sua totale espulsione dal vocabolario filosofico (…) per ricercare [piuttosto] quale principio, se ve n’è uno, viene applicato nella scienza in luogo della supposta «legge di causalità» (…). Tutti i filosofi, di ogni scuola, immaginano che la causalità sia uno degli assiomi o postulati fondamentali della scienza; e invece, fatto strano, nelle scienze più progredite, come l’astronomia gravitazionale, la parola «causa» non compare mai (…). Quando è il caso di dire che qualcosa «dev’essere vero in tutte le circostanze», il qualcosa in questione dev’essere una funzione enunciativa, cioè una espressione che contiene una variabile, e che diventa un enunciato quando alla variabile viene assegnato un valore; le varie «circostanze» alle quali si allude sono allora i diversi colori che la variabile è capace di assumere” (Russel B., in Aleo S., 2003:15-16).
Ulteriori sviluppi.
Tanto la logica classica quanto quella simbolica sono sistemi di logica deduttiva. Le premesse di un ragionamento valido contengono la conclusione, e la verità della conclusione segue con certezza dalla verità delle premesse. Vi sono anche tentativi che cercano di sviluppare sistemi di logica induttiva, nei quali si studiano le condizioni perché una conclusione sia asseribile solo con un certo livello di probabilità. Il contributo più rilevante alla logica induttiva è quello del filosofo inglese John Stuart Mill, che nel suo Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843) presenta, metodologicamente e dimostrativamente, le caratterizzazioni delle scienze empiriche. Nel XX secolo questa necessità si sviluppa soprattutto nell’ambito della filosofia della scienza e si intreccia con quella branca della matematica nota come teoria delle probabilità.
Nelle loro forme usuali, sia la logica classica sia quella simbolica presuppongono che ogni proposizione ben formalizzata (ossia ben inserita in una forma) sia vera o falsa. I filosofi simbolisti tentano di sviluppare i sistemi delle cosiddette logiche a più valori, nelle quali una proposizione può assumere anche altri valori di verità, oltre a quelli classici di Vero e Falso. In alcune sistemi filosofici simbolisti, ad esempio, si pensa solo ad un terzo valore di verità neutro. In altri sistemi logici, il valore probabilistico è una frazione che va da 0 a 1 o da -1 a +1. Un ulteriore sviluppo è legato alla formulazione di sistemi di logica modale, che rappresentano le relazioni logiche tra asserzioni di possibilità e impossibilità, necessità e contingenza. Ancora più vicino a noi è l’ulteriore espansione delle concettualizzazioni legate alla logica deontica, cioè allo studio delle relazioni logiche tra comandi o tra affermazioni di obbligo.
La logica formale e la logica filosofica.
Quanto finora esposto riguarda essenzialmente ciò che si intende per logica formale. Essa viene intesa come lo studio delle corrette deduzioni e delle procedure dimostrative del ragionamento, a prescindere dai contenuti della conoscenza.
Vi è un’altra accezione del termine logica assai interessante. In questa connotazione, il termine fa riferimento ad ogni riflessione sulla natura stessa del pensiero e sulle condizioni perché in generale si possa conoscere ciò che intendiamo per verità.
Immanuel Kant distingue la logica formale dalla logica trascendentale, attribuendo a quest’ultima lo studio delle funzioni a priori del nostro pensiero. Durante l’Ottocento, nei sistemi idealistici e in particolare in quello di G.F. Hegel, la logica abbraccia alcuni dei temi tradizionalmente assegnati alla metafisica. È comune convinzione che tutta la realtà possa essere identificata con il pensiero e che funzione della logica sia di studiare il pensiero come tale. A questa ispirazione rimangono sostanzialmente fedeli anche i pensatori neoidealisti italiani del Novecento, come Benedetto Croce e Giovanni Gentile.
Nell’ambito della logica si distingue fra induzione e deduzione. Nel primo caso, il procedimento razionale esamina i casi particolari per giungere ad una conclusione generale. Nel secondo caso, il ragionamento procede al raggiungimento di una specifica conclusione, a partire da una o più premesse generali.
L’induzione.
A fondamento dell’induzione vi è il presupposto che, se qualche cosa è vera in una quantità di casi osservati, essa è vera anche in casi simili non ancora vagliati. In questo modo, l’induzione consente di affermare, nella conclusione, qualcosa di più e di nuovo di quanto è contenuto nei casi particolari che fungono da premesse. Il suo limite consiste nel non pervenire a conclusioni assolutamente certe, bensì a conclusioni dotate solo di un grado più o meno elevato di probabilità. Il filosofo David Hume, empirista del XVIII secolo, afferma che tutti i nostri ragionamenti induttivi, relativi cioè a esperienze ripetute di eventi osservabili, presuppongono la credenza nell’uniformità della natura. In altri termini, egli sostiene che il futuro rassomiglierà al passato, anche se la credenza nell’uniformità della natura non può essere fondata induttivamente.
Già studiato nell’antichità da Aristotele, il metodo induttivo si articola all’interno di una serie di regole che approdano nella filosofia di Francesco Bacone alle soglie dell’età moderna. In tutto l’Ottocento, il problema dell’induzione è al centro del Sistema di logica deduttiva e induttiva di John Stuart Mill e della Storia delle scienze induttive di William Whewell. Esso ritorna ancora nella filosofia della scienza del Novecento, e in particolare in quella dei neopositivisti. A confutazione delle loro tesi, secondo cui l’induzione costituisce la via per stabilire la verità delle scienze empiriche, è possibile ascrivere anche l’epistemologia di Karl Raimund Popper (Popper K.R., 1975).
Il problema dell’induzione.
Il filosofo scozzese del XVIII secolo David Hume fornisce un notevole contributo all’evoluzione dello scetticismo e dell’empirismo. In campo epistemologico, nega la necessità logica e la validità universale del nesso di causalità. Giunge inoltre a mettere in discussione il soggetto-sostanza della metafisica, sostenendo che l’Io è costituito da un fascio di percezioni, privo di un fondamento immutabile ed essenziale.
Egli è fermamente convinto che qualsiasi risultato dell’osservazione, della sperimentazione e dei controlli attestino solo la validità di una teoria scientifica, senza provarne la sua verità. Anche le più banali generalizzazioni empiriche travalicano ciò che si può rigorosamente inferire dall’esperienza diretta. In caso contrario, tutte le teorie scientifiche non potrebbero prevedere il corso della natura, né avrebbero alcun potere esplicativo. Il rapporto fra osservazione e teoria costituisce uno dei problemi fondamentali dell’epistemologia, il problema dell’induzione, la cui formulazione tradizionale si deve al nostro filosofo scozzese.
Hume prende in considerazione semplici previsioni basate su dati ricavati dall’esperienza, dimostrando con solidi argomenti che tali inferenze non sono razionalmente sostenibili. Nonostante ciò, egli non nega che i ragionamenti induttivi possano garantire alle leggi scientifiche una certa attendibilità. Afferma però che sia legittimo continuare a fidarsi dell’induzione, solo nel caso in cui si scopra una valida ragione per credere che l’induzione continuerà a mostrarsi attendibile anche in futuro. Si tratta però di una ragionamento tautologico. In effetti, ritenere che l’induzione funzionerà in futuro, solo perché ha già dimostrato la sua validità in passato, significa cadere in un circolo vizioso che, per giustificare l’induzione, la presuppone.
Anche Karl Raimund Popper affronta la questione del metodo scientifico e della concezione induttiva della scienza. Egli conclude che le teorie scientifiche sono ipotesi non smentite dalle osservazioni sperimentali. Non esiste dunque alcuna teoria, secondo Popper, di cui si possa affermare l’assoluta e definitiva validità. Egli propone una soluzione ancora più radicale del problema dell’induzione. A suo parere, il ragionamento di Hume, in base al quale le induzioni non hanno una giustificazione razionale, è corretto. Ma tutto ciò non pregiudica comunque la razionalità della scienza, le cui conclusioni sono, nonostante le apparenze, esclusivamente deduttive. L’idea di fondo di Popper è la seguente: se è vero che i dati empirici non implicheranno mai che tutti i corvi siano neri, essi potranno comunque confutare le teorie che implicano il contrario. In altri termini, nessun numero, per quanto grande, di osservazioni relative a corvi neri può darci la certezza che tutti i corvi siano neri, ma l’osservazione di un solo corvo bianco dimostra che l’asserzione universale tutti i corvi sono neri è oltremodo falsa. Gli scienziati, dunque, possono pervenire ad una teoria falsa, senza bisogno di ricorrere all’induzione.
Francis Bacon teorizza l’esigenza di abbandonare il solo metodo teorico, basato essenzialmente sul metodo deduttivo a scapito dell’osservazione diretta e sperimentale sulla natura. A questo procedimento Bacone vuole opporne uno dotato di fecondità euristica, capace di condurre a nuove scoperte, mediante l’impiego di un metodo induttivo. Per lui però l’induzione non è quella presente nella logica di Aristotele, in cui si parte dai dati osservati e si giunge alle proposizioni più generali. La vera via che Bacone indica è quella che parte dalle sensazioni e dai fatti particolari per risalire a proposizioni intermedie, ascendendo in modo progressivo e continuo fino ad arrivare a quelle più generali. Questa metodologia presuppone che l’esperienza, purché sottoposta ad una elaborazione razionale, sia sempre da considerarsi come la fonte della nostra conoscenza, la quale ha come scopo quello di assoggettare la natura alle nostre richieste, piegandola al servizio dell’uomo.
La deduzione
Come abbiamo già affermato, la forma classica di ragionamento deduttivo aristotelico è il sillogismo, nel quale la deduzione si configura come un ragionamento che discende da premesse universali a conclusioni particolari.
Nell’ambito della logica contemporanea, il maggior contributo fornito alla logica è la teoria della abduzione di Charles Sanders Peirce. Questa è una forma di ragionamento che fa derivare dall’effetto la causa probabile. L’abduzione consente, di fronte a un certo problema, di risalire ad un’ipotesi di soluzione. Un esempio di abduzione può essere il seguente ragionamento: “se qui vi è della cenere, ci deve essere stato anche un fuoco”. In questo modo l’abduzione svolge un’importante funzione euristica.
Il Costruttivismo
Il Costruttivismo è una teoria della conoscenza, parte essenziale della cultura filosofica contemporanea, persuasiva e stimolante per molti, discutibile per altri. Risponde a domande del tipo: cosa significa conoscere? Come avviene il processo della conoscenza? Quale rapporto esiste fra conoscenza e realtà? Padre del Costruttivismo radicale è il filosofo contemporaneo tedesco Ernst von Glasersfeld. Il suo sistema costituisce un approccio non convenzionale al problema della conoscenza e del sapere. Parte dall’asserto (che) secondo il quale la conoscenza, non importa come sia definibile, è nel cervello di tutta la gente, e che il soggetto pensante non ha alternative diverse dal costruire quello che egli sa, sulla base delle personali esperienze. Ciò che ogni essere umano compie dell’esperienza costituisce l’unico mondo nel quale coscientemente viviamo, ed il diverso fare può essere raggruppato in disparate categorie, quali le cose, il , gli altri, etc. Resta il fatto che tutti i tipi di esperienza sono essenzialmente soggettivi. Inoltre, anche se ogni persona ha ragione di supporre che la propria esperienza possa essere diversa dalla altrui, non si possiede alcun strumento per sapere se sia o no la stessa. L’esperienza e l’interpretazione del linguaggio non fanno eccezione. La realtà non va dunque considerata come un qualcosa di oggettivo, indipendente dal soggetto che ne fa esperienza, poiché è il soggetto stesso che la crea, partecipando in maniera attiva alla sua costruzione.
In base a tale prospettiva, si hanno le seguenti conseguenze: le leggi di natura non vengono scoperte bensì inventate; non è possibile una distinzione netta tra colui che osserva e l’oggetto osservato, poiché entrambi si definiscono come tali attraverso la reciproca interazione; ciò che si definisceconoscenza non può essere considerata una rappresentazione del mondo esterno ricavata dal mondo reale, ma è una costruzione fatta dal soggetto con materiali presi al proprio interno (i pregressi collegamenti neuronali frutto di esperienze precedenti); la cognizione non è un mezzo per conoscere la realtà oggettiva, ma (serve) è funzionale all’adattamento dell’organismo all’ambiente; ciò che viene osservato non sono oggetti, proprietà o relazioni di un mondo che esiste indipendentemente dall’osservatore, bensì delle distinzioni effettuate dall’osservatore stesso, in seguito alla propria attività nell’ambiente; la sensazione non è la rilevazione impersonale di un dato, come quella derivante dalla lettura di uno strumento, quanto piuttosto un fenomeno che coinvolge profondamente il soggetto.
Come ricorda Aristotele: ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo.
Ragionamento e logica conclusivi
In queste righe il lettore dovrebbe scoprire perché ha letto tutto ciò che è stato brevemente scritto sulla logica ed il ragionamento.
L’intera umanità vive in un pianeta che la ospita da almeno duecentomila (mila) anni. Viviamo sul pianeta che non abbiamo creato noi, ma che continuiamo a trasformare con una forza paragonabile a quella utilizzata dalla piante, che hanno modificato la composizione dell’atmosfera, e dei coralli, che hanno costruito isole (Popper K.R., 1975).
Con che cosa cambiamo il mondo? Con prodotti particolari, assimilabili solo alla nostra specie. Si tratta dei nostri miti, valori, idee e quindi delle nostre teorie scientifiche (Popper K.R., ibidem).
Ecco a cosa servono le idee, dentro logiche e ragionamenti. Esse servono a cambiare il mondo, lentamente ma radicalmente. Ogni volta che un’idea si esprime, attraverso un misterioso circuito neuronale, rendiamo visibile un processo millenario che definiamo conoscenza. E la conoscenza cambia il mondo e colui che la utilizza per cambiarlo. Ogni essere umano esiste in reciproca mutazione con il mondo e sé stesso.
“Questo ci permette di pensare alla conoscenza prodotta dagli uomini come analoga al miele prodotto dalle api; e l’ape individuale che consuma il miele non consumerà in generale la parte che essa ha prodotta tutta da sé: il miele è consumato anche dai fuchi che non ne hanno prodotto affatto. (…) E’ anche interessante notare che per mantenere la capacità di produrre più miele, ciascuna ape operaia deve consumare miele, parte del quale è di solito prodotto da altre api” (Popper K.R., ibidem:378-379).
In questo mondo esistono idee che, credo, mi appartengano. In realtà, nessun essere umano possiede effettivamente proprie originali ed autonome idee. La conoscenza, cioè l’insieme delle idee di un sistema vitale come il Cosmo, è sempre cumulativa, mai individuale. Nessuno di noi ragiona con il proprio cervello, perché il cervello anche se personale non è una proprietà privata. Il cervello, il nostro singolare cervello, è pubblico e sempre, sin dalla nascita, oseremo dire sino dal concepimento. Nell’utero materno non siamo soli, anche se apparentemente separati dalle pareti addominali materne grazie alla presenza della placenta. Il cervello del feto, sin dalle prime settimane di gestazione, è strettamente in contatto con la madre, con i suoi umori, desideri e speranze. Questi si trasformano in sensazioni che si ripercuotono nel Sistema Nervoso Simpatico e Parasimpatico, veicolando così gli umori del feto stesso.
Nella concezione che l’umanità intera (quella finora conosciuta) ha sviluppato rispetto all’idea di perfezione, si ritrova il rapporto tra il feto e la madre, analogo a quello che intercorre tra i fuchi e le api operaie. I fuchi esistono sono in funzione della vita delle api operaie e viceversa. Tutto è reciprocamente veicolato in questo mondo, anche se imperfetto. L’idea di perfezione è effettivamente estranea ai sensi dell’uomo. Non è di questa terra la perfezione, perché legata all’attuazione di uno stato di perenne immobilità. L’uomo, in quanto tale, è soggetto ad usura e dunque vive nel cambiamento del tempo. Anzi, è proprio il mutamento che crea il tempo stesso. Senza un mutamento misurabile non esisterebbe il tempo (Bertirotti A., in Chiarelli B., 2003). In questa ottica, la nostra specie, tutta la sua evoluzione, è espressione di una costante imprecisione od imperfezione, grazie alle quali abbiamo aperto le porte alla casualità.
A questo punto la questione si fa critica, perché i concetti di imprecisione (od imperfezione) uniti a quello di casualità ci pongono il problema sia della libertà umana, in senso etico, sia quello della produzione libera di idee.
“La questione fondamentale della morale, problema vitale in religione e oggetto di viva indagine nella scienza, è la seguente: l’uomo agisce liberamente? Se (…) gli atomi dei nostri corpi seguono leggi fisiche altrettanto immutabili che i movimenti dei pianeti, perché cercare? Che differenza fa, pur se uno compie sforzi enormi, dal momento che le nostre azioni sono già predeterminate da leggi meccaniche (…)” Compton A.H., in Popper K.R., op. cit.:288)?
Concepire troppo scientificamente deterministico il nostro mondo, compreso il Cosmo che lo racchiude, può diventare un vero e proprio incubo, dal quale difficilmente se ne esce. In un mondo troppo deterministico non vi è spazio per qualsiasi intervento esterno, non vi è spazio per quella quota di imprecisione che diventa effettivamente il sale della vita.
“Talché tutti i nostri pensieri, sentimenti e sforzi non avrebbero nessuna influenza pratica su ciò che si verifica nel mondo fisico; pensieri, sentimenti e sforzi sarebbero, se non delle mere illusioni, nel migliore dei casi dei superflui sottoprodotti (…) di eventi fisici” (Popper K.R., ibidem:288-289).
Ben vengano dunque le idee, che contrastano e dialogano con le convinzioni selezionate da una concezione troppo deterministica dell’Universo, quella legata alle certezze, alla credenza di essere sempre sulla strada migliore.
Le idee servono proprio a questo: a costruire un cambiamento invisibile ai più, ma utile a tutti.

Alessandro Bertirotti

Alessandro Bertirotti

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