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Mente

Hutchinson-Gilford: da Novanta a Zero

Quale ispirazione ha guidato Francis Scott Fitzgerald nel porre la Baltimora dell’estate del 1860 di fronte alle cinquantanove pagine sul “Curioso caso di Benjamin Button”? E, per giunta, aggravato dalla morte di Caroline Murphy nel dare alla luce lo stranissimo scherzo della natura? E con l’immediata reazione di un padre nel trovare nella culla un mostriciattolo tutto raggrinzito e malaticcio? Quale il messaggio che l’autrice del romanzo, nel 1922, ha voluto trasmettere attraverso un personaggio tanto scomodo? E come mai, pur tra tanta meraviglia, imbarazzo e disperata rassegnazione, “Benjamin Button”, nomination Oscar 2009 miglior film, in Italia ha realizzato, secondo i dati Cinetel, un incasso al botteghino di € 10.900.000, negli Stati Uniti ha superato $ 150.000.000 e, a livello internazionale, ha totalizzato oltre $ 340.000.000?
Tante le motivazioni e, soprattutto, le riflessioni gnomiche a cui il lettore-spettatore perviene di fronte a questa “struggente storia d’amore che non ha http:\\/\\/psicolab.neta di favolistico” (David Fincher, Intervista, 2008) che fa riflettere, e non poco, sul valore del tempo e sui valori della vita di fronte al “vecchietto con le stampelle” in grado di affrontare, anno dopo anno, nonostante non possa nemmeno giocare con i coetanei, ogni attimo della sua “avventura al contrario” con il titanico coraggio di chi è deciso a lottare strenuamente contro i suoi mali, sormontare gli ostacoli, vincere le sue paure, abbracciare la vita con passione, seguire la voce del proprio cuore … Non pensare, sembra dire Brad Pitt, nomination Oscar 2009 miglior attore protagonista, al tempo che passa, ma al modo in cui esso trascorre, bisogna sottoporre a una diligente inchiesta azioni e parole della giornata servendosi della ratio e della virtus attraverso il “me prius scrutor” (Seneca, De ira, III,36), quel rigoroso e assiduo autocontrollo che spinge a ricercare misteriose forze contro il male di vivere per dimostrare che “le crisi e le avversità, spesso, diventano occasione di crescita interiore” (Isabel Allende, Il mio paese inventato, 2004) …
L’avvio del film è in medias res a New Orleans, il vento infuria anticipando l’arrivo disastroso dell’uragano Katrina, con una tensione crescente per il peggioramento delle condizioni atmosferiche … Lo schermo invaso da bottoni, moltissimi bottoni rotondi – quadrati, a due – a quattro buchi, marroni – neri – gialli … In primo piano gli occhi azzurri ormai spenti di una donna, “una grande professionista” che cerca di rubare istanti vitali ad Atropo per accarezzare ancora una volta ricordi mai svaniti e regalarli all’adorata Caroline che le sussurra all’orecchio, cercando di darle un po’ di sollievo al dolore, alla spasmodica ricerca delle parole più amorevoli per “salutarla”, per farle “sentire” quanto sia stata importante per lei … “Mi mancherai tanto, mamma … spero di non averti delusa” … e, mentre la Fuller sta per morire, la ragazza scopre la vera identità di suo padre tramite un diario mai letto, quello lasciato da Benjamin, scritto, forse, per dimostrare come “in ogni cosa sia salutare, di tanto in tanto, mettere un punto interrogativo a ciò che a lungo si era dato per scontato” (Bertrand Russell, Aforismi, 1960).
La moribonda Cate Blanchett, sfigurata dall’impietoso processo di invecchiamento a base di computer grafica e make up che l’ha costretta a subire 4 ore di trucco al giorno e il calore eccessivo generato dalle luci di scena e dalle coperte, con la magistrale forza interpretativa, Nomination Critics’ Choice Movie Award 2009 miglior attrice protagonista, si presenta su “una barca in balia della corrente”, mentre l’urgere del tempo che sente scivolare tra le dita la sollecita a raccontare … Malgrado la “bocca piena di ovatta” e la morfina per tenere a freno i dolori lancinanti, lascia rotolare dettagli che, seppur ignorati dalla macrostoria, intrecciati ad avvenimenti storici rappresentativi, contribuiscono a slacciare i gangli fondamentali della sua vita … L’inaugurazione della stazione dei treni nel 1918 alla presenza di Teddy Roosevelt, l’orologio progettato dal Signor Torta con un meccanismo che “va all’indietro”, rimasto nella stazione ferroviaria fino al 2002, quando è stato deposto e sostituito con uno digitale, le lacrime di commozione di fronte alle parole struggenti del Signor Gateau che manifesta l’assurda speranza “di veder risorgere dalle trincee i giovani caduti al fronte”, il dileguarsi nelle tenebre di un padre totalmente cieco dalla nascita, morto di crepacuore o scomparso in mare perché non disposto a subire una vita senza più una ragione …
I tanti silenzi di Cate Blanchett vengono supportati dalle “ultime volontà di un uomo” trascritte su pagine ormai ingiallite, chiave per uscire dall’ambiente freddo e artificiale di una stanza di ospedale ed entrare nelle calde atmosfere delle avventure di Benjamin, che si muove entro gli scenari soffusi saturi d’antico e nostalgico passato creati da David Fincher con la collaborazione di Donald Graham Burt e Victor J. Zolfo, Oscar 2009 … “Sono venuto al mondo in circostanze inusuali” … e comincia il lungo flashback di un uomo, narratore auto-omodiegetico, che, intercalando la sua voce a quella della figlia, racconta “il suo lungo viaggio, dalla strana nascita alla morte”, che si snoda da Los Angeles in California al quartiere del Garden District di New Orleans in Louisiana, al sobborgo storico di Vieux-Montréal nella città di Montréal in Canada, a New York …
Le paginette del racconto originale di Fitzgerald sono state ambientate a Baltimora, ma il regista, rendendosi subito conto dell’eccessivo costo necessario per “invecchiare di cento anni la città del Maryland, ha preferito sostituirla con New Orleans, un centro che ha mantenuto un evidente legame con il passato e che ben si presta a dipingere la patria del jazz e degli speak-easy; i vantaggi sono stati più evidenti quando l’équipe si è trovata in Louisiana proprio all’arrivo di Katrina … E’ diventato veramente naturale, a quel punto, distendere un racconto di “ieri” intervallato dal ritorno alla realtà del lettore-spettatore con “l’oggi” di una donna in fin di vita in attesa del colibrì che, picchettando sui vetri, la sollecita a ricongiungersi con il suo “lui” di sempre e a ribadire che “omnia vincit amor” (Virgilio, Bucoliche, X, 69) … l’amore, la chiave principale che apre all’uomo tutte le porte dell’impossibile, “un potere attivo che anhttp:\\/\\/psicolab.neta nel suo animo le pareti tra i suoi simili, che gli fa superare il senso d’isolamento e di separazione, che gli permette di essere sé stesso e di conservare la propria integrità” (Erich Fromm, Aforismi, 1960), che gli insegna a trovare, anche negli errori, il bandolo per compiere scelte più responsabili e padroneggiare il mondo dell’epoca. La storia segue l’avventura esistenziale di un uomo che, nel racconto di Fitzgerald, nasce nel 1860, nel film nel momento in cui, all’undicesima ora dell’undicesimo giorno dell’undicesimo mese del 1918, la Grande Guerra si è conclusa, e, in ambedue casi, con l’età di un ultraottantenne affetto da sindrome di Hutchinson-Gilford.
Un ruolo determinante è sostenuto da Queenie, la donna di colore che raccoglie il “brutto come il peccato” sulle scale del gerontocomio in cui lei presta assistenza, gli si affeziona perché “tanto sgraziato che le faceva tenerezza” e, pur tra moltissime difficoltà, convinta dell’idea secondo cui “la parte migliore della vita è quella di amare più che si può mentre si è in vita”, lo fa crescere in un clima di sereno, lontano dall’affanno delle contingenze della quotidianità, protetto dall’affetto dei tanti “nonni” che vanno e vengono da Nolan House. “Non sai mai cosa c’è in serbo per te”, continua a ripetergli Taraji P. Henson, nomination Oscar 2009 migliore attrice non protagonista, mentre Brad Pitt, con l’aiuto di lei, capisce presto che deve guardarsi attorno con occhi splendenti; il “non si sa quanto gli resterà da vivere” diagnosticato dai medici lo spinge a riflettere, a godere di ogni piccolo evento come se esso fosse un magnifico regalo, ad apprezzare attorno a sé i prismi di cristallo, a dare spessore anche alle circostanze più dolorose che, comunque, costituiscono un importante tassello di un grande puzzle perseguendo l’idea secondo cui “ogni vita è determinata dalle opportunità, anche da quelle che si lasciano sfuggire”.
Ancora “bambino”, nel giorno del Ringraziamento del 1930, conosce la persona che cambia definitivamente la sua vita, è la nipotina di Nonna Fuller, impersonata, prima, a sei anni, dalla deliziosa Elle Fanning, immagine splendente di giovialità connotata da luminosi capelli rossi e splendidi occhi blu, poi, a dieci, dall’affascinante Madisen Beaty dal sorriso malizioso, egocentrica, narcisistica, sempre intenta a provare passi di danza da mostrare a Phyllis Somerville e per mettersi in mostra di fronte a lui; la Cate Blanchett definitiva entra ufficialmente nel film a diciassette anni, di volta in volta ringiovanita e invecchiata anch’essa per esigenze di copione, anche se la voce, dai 6 agli 86 anni, è ininterrottamente quella di lei. La ragazza, sin dal primo dialogo, è subito attratta dallo “strano vecchietto, in cui trova qualcosa di diverso”; durante i periodici soggiorni di lei nella casa di cura, i due compagni di giochi diventano inseparabili e gettano le basi per una solida amicizia che, lentamente, si trasforma in profondo affiatamento.
“L’ incontro magico” avviene sotto un tavolo illuminato da una candela e, da quel momento, l’interesse reciproco crescerà sempre di più; i due non si separeranno mai, anche quando le due parabole, quella naturale di lei e quella fenomenale di lui, sembreranno portarli lontano uno dall’altra … Il loro legame diventa esplicito quando Daisy, vedendo allontanare Benjamin che sta per imbarcarsi sul rimorchiatore del capitano Clark, fa trapelare dagli sguardi intensi la consapevolezza che, inconsciamente, nel suo cuore, quell’uomo si è trasformato in “Kismet, un predetto dalla Provvidenza” e anche il coraggioso eroe sente che l’attaccamento di verso di lei si concretizza nel suo cuore fino a diventare il punto fermo della sua vicenda con la promessa di mandarle delle cartoline “da ogni posto in cui andrà a lavorare” e gliele manda davvero, sono quelle che la ragazza trova nella cassetta indicatale dalla madre … Newfounland, Baffin Bay, Terranova, Glasgow, Liverpool, Narvik … quasi a dirle che “nei capitoli della loro vita insieme ancora non scritta, tra quelle pagine ancora non lette, se Daisy lo cercherà, lo troverà sempre al suo fianco … Passano gli anni … La perde, la ritrova, la sposa, assiste alla nascita della loro bambina che, nel film, compare, per la prima volta, come figura silenziosa interpretata dalla dodicenne Katta Hulesa, e, in seguito, sin dall’incipit e per tutta la durata della proiezione, da Julia Ormond, che ha il gravoso ruolo di accompagnare la genitrice nel regno di Plutone e di leggere il diario di Benjamin. Scorrendo il prezioso documento e ricordando una reazione spropositata della madre che era apparsa sconvolta, Caroline lo identifica nel bellissimo ragazzo intravisto, un giovedì sera, dopo undici anni, in palestra, lo stesso che, anche se trasformato, nei suoi primissimi anni di vita, la teneva stretta e che, poi, era scomparso per lasciare il posto a un certo Robert Williams … Capisce che Benjamin le aveva abbandonate solo per un atto di puro amore, consapevole di non poter assolvere al suo ruolo di padre e marito … Anni dopo la morte di Rus Blackwell, l’anziana insegnante di danza riceve una misteriosa telefonata dai servizi sociali, la informano del ritrovamento di uno strano bambino di 12 anni, affetto da demenza senile, con spaventosi vuoti di memoria, isterico e collerico, con nello zaino un diario in cui ricorre spesso il nome di lei … La Fuller, amante-mamma, da quel momento, lo accudisce finché, nel 2003, ormai neonato, il piccolo muore accucciato beatamente tra le braccia avvizzite della “sua” donna, come se stesse dormendo, abbracciato dalla mamma o dalla nonna mentre coscienza e memoria scivolano nel buio e, contemporaneamente, “con una sapienza infantile da pochi riconosciuta, regalando uno sguardo consapevole all’amata” (www.justmyplanet.com, 16 febbraio 2009).
Tra le varie avventure costruite da Fincher vi è il ragguaglio, storicamente determinato, dell’Attacco a Pearl Harbor da parte del rimorchiatore “Jupiter” che, durante la Seconda guerra mondiale, aveva affondato un sottomarino; l’episodio è adombrato nell’esperienza del “vecchio di diciassette anni” che viene ingaggiato dal “Captain Miche” sulla prodigiosa “Chelsea” per 2 dollari dal giorno. Anche in questa occasione, sicurezza, funzionalità e realismo sono le parole d’ordine del Cast. Gli interventi per gli effetti speciali e per la costruzione della nave, alta 6 metri di altezza, larga 9, lunga 27, sono stati coordinati da Bult Danton e “la realizzazione dell’intera struttura in una cisterna profonda 6 metri è come un film a sé stante perché l’imbarcazione deve poter galleggiare sul Mississipi, rollare e beccheggiare come se fosse sull’oceano, rollare, beccheggiare, sollevarsi come se il mare fosse agitato e, alla fine, quando va a schiantarsi, deve colpire il sottomarino e, per essere più realistica, venire fuori dall’acqua senza che la poppa sprofondi sotto la superficie dell’acqua”.
“Il maledetto artista di tatuaggi”, intanto, turbato di fronte a “quell’arzillo vecchietto saggio e innocente, anziano e inesperto, giovane e meditativo” (www.scienzepostmoderne.org, 25/12/2008), inizia ai segreti del sesso l’adolescente col corpo di un over-70 e la ragazza del bordello, ormai spossata dall’amplesso sfrenato, ritrova in lui i segni di Dick Tracy … L’esperienza di Benjamin sul rimorchiatore rappresenta una tappa fondamentale perché il novello Pigmalione gli chiarisce principi apodittici di carattere fortemente gnomico secondo cui ognuno, come “il colibrì”, deve “diventare quello per cui è nato“ e prefiggersi vette irraggiungibili che tendono all’infinito; se, infatti, qualcuno tenta di soffocarne l’indole naturale, un individuo, come questo uccello, perde metaforicamente il suo spazio vitale e “muore in meno di dieci secondi”. Tali riflessioni avviano un altro tema portante incentrato sulla consapevolezza che “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” (Ungaretti, Soldati, 1918); la vita, infatti, “non si misura in minuti, ma in attimi” (David Fincher, Intervista, 2009), in una successione di innumerevoli istanti da afferrare, spremere il più possibile e, così, è necessario “carpere diem” (Orazio, I, 11, vv. 8), assaporare la vita nel più pieno dei modi senza affannarsi per il futuro. Poiché, dunque, “nella vita niente dura”, bisogna cogliere le opportunità prima che l’ ”invida aetas” (Orazio, Ibidem, vv. 7-8), il tempo invidioso, porti troppo presto al capolinea e, soprattutto, impedisca di assaporare pienamente l’amore …
Secondo tali prospettive è da leggere l’anafora martellante del racconto quasi maniacale di Mr. Daws, “ormai cieco di un occhio, quasi sordo, con spasmi e tremori improvvisi, incapace persino di seguire il filo dei suoi pensieri”, sul fulmine che ben sette volte lo ha colpito ma la corrente si è sempre dispersa nel terreno circostante e, di volta in volta, mentre riparava un tetto, o ritirava la posta, o era nel campo a far pascolare le vacche, o guidava pensando ai fatti suoi, o portava a passeggio il cane … La storia narrata, seppur riferibile a Roy Cleveland Sullivan, detentore del record per essere stato realmente traumatizzato negli anni 1942, 1969, 1970, 1972, 1973, 1974 e 1977 dall’evento intessuto nel film, appare un satellite accessorio, ma, a una lettura più attenta, essa risalta come nucleo portante. Fincher, infatti, omette ogni riferimento al settimo “colpo di fulmine” in quanto l’uomo dalle 7 vite sente che l’ultima scarica lo colpirà mortalmente. Ted Manson sa che quel giorno fatidico arriverà e cerca di far capire a Benjamin quanto sia importante vivere al meglio nell’hic et nunc, sfruttando il “quod est” (Seneca, De brevitate vitae, X 2-5) come se esso fosse l’ultimo e imparando a “colligere et serbare” tutte le ore, raccogliere e custodire, insomma, tutto il tempo che, fino a quel momento, “aut auferebatur”, gli veniva strappato, “aut subripiebatur”, o rubato, “aut excidebat” , o se lo lasciava scivolare via (Il tempo, Ep. ad Luc. 1,1-2) … ma è sempre così?
La vita, è vero, “essendo quella che è, inaspettatamente, trascina verso un precipizio” ed è inutile tentare di resistere …Al di là del “clivo dal qual nessun risale” (Foscolo, Le Grazie, Inno III, vv. 148-149), Benjamin, in questa occasione narratore eterodiegetico e onnisciente, apre un varco agli occhi dello spettatore perché, metabolizzate le fitte lancinanti, si scopre che le spine velano sempre una rosa … “Una donna, a Parigi stava uscendo, aveva dimenticato il soprabito e tornò indietro a prenderlo, squillò il telefono … E DAISY STAVA PROVANDO LO SPETTACOLO ALL’OPÈRA DE PARIS … La donna era uscita per prendere un taxi, il conducente si era fermato a prendere un caffè … E INTANTO DAISY CONTINUAVA A PROVARE … L’autista prese a bordo la donna, dovette fermarsi per far attraversare la strada a un uomo che stava andando a lavoro in ritardo … DAISY AVEVA FINITO LE PROVE E SI STAVA FACENDO LA DOCCIA … La donna era entrata in una pasticceria, ritirato il pacchetto era risalita sul taxi, che rimase bloccato da un furgone … E INTANTO DAISY SI STAVA VESTENDO … Il taxi ripartì … DAISY SI FERMÒ AD ASPETTARE UN’AMICA … Mentre il taxi era fermo a un semaforo, DAISY E LA SUA AMICA USCIRONO DAL RETRO DEL TEATRO … Se solo una cosa fosse andata diversamente, se quella donna avesse preso il taxi precedente, o la commessa non si fosse lasciata col fidanzato, o quell’uomo si fosse alzato 5 minuti prima o quel tassista non si fosse fermato … DAISY E LA SUA AMICA AVREBBERO ATTRAVERSATO LA STRADA E IL TAXI SAREBBE SFILATO VIA … La vita, essendo quella che è, aveva incrociato una serie di circostanze incontrollabili e Daisy non è più riuscita a danzare sui palcoscenici dei grandi teatri, ma si sono generati i presupposti per intrecciare di nuovo le vicende della coppia; i due, dopo la morte di Queenie, vanno a vivere insieme a New Orleans, lei è preoccupata dal futuro che li aspetta, Ben la rasserena, il loro rapporto è inossidabile, tanto che, “mentre Daisy socchiude gli occhi, battendo piano le palpebre per svegliarsi, stiracchiandosi sul suo petto, con i capelli ramati sparsi sulla sua pelle, egli pensa che, in realtà, l’amore li ha sempre accompagnati e, probabilmente, li accompagnerà sempre, sia quando lei sarà segnata “dalle rughe della vecchiaia”, sia quando lui “avrà l’acne”.
Nel sistema attanziale di questa straordinaria odissea piena di allegorie e insegnamenti che pullula nell’universo del film, niente e nessuno passa inosservato … “C’È chi sta seduto sulla riva di un fiume, chi nuota, chi nasce madre, chi danza” … C’E’ la signora con la fissazione di fantomatici ladri “di tutti i suoi gioielli” … la cantante lirica che trascorre il tempo davanti allo specchio a provare i suoi fragorosi “la” … l’ottuagenario che, ogni mattina, issa la bandiera a stelle e strisce in costume adamitico … C’È Mahershalalhashbaz Ali nelle vesti di Tizzy Weathers, il compagno di lunga data di Queenie, che insegna a leggere a Benjamin e gli recita “l’Enrico VI, parte 1 di Shakespeare” … il predicatore carismatico nero, che, “nella gloria e nel nome del Signore”, con la biblica frase “alzati e cammina”, crede di liberare il corpo avvizzito del “vecchio di sette anni” dalla “bestia satanica” e lo costringe ad alzarsi dalla sedia a rotelle per fargli compiere autonomamente i primi passi … nonna Fuller, che, per prima, coglie in maniera tangibile “l’aspetto straordinariamente giovanile” del bambino senescente mentre cammina “con solo una canna da passeggio e la schiena diritta come un fuso” … la signora Maple, sempre vestita elegantemente e ingioiellata, che insegna a Benjamin a suonare il pianoforte e gli trasmette una passione talmente forte che “il ragazzino”, anche quando presenta segni di demenza senile verso la fine della sua vita, ricorda ancora i motivi appresi da lei, esempio di “come, a volte, le persone che si ricordano meno sono quelle che lasciano nel cuore un impatto molto forte” … C’E’ il signor Ngunda Oti, che ha alloggiato per un breve periodo nella casa di riposo, famoso “uomo-scimmia”, vissuto per anni nelle gabbie delle scimmie del circo, facendo il giro del mondo e rimasto vedovo cinque volte a causa delle mogli morte per motivi vari come la cattura dei cannibali o il veleno di un cobra o … Il pigmeo trasmette “all’ometto” il suo bisogno di vagare nel mondo che scorre oltre la prigione dorata, gli fa trascorrere “il giorno più bello della sua vita”, ne sollecita la curiosità naturale e lo conduce con sé il sull’autobus, tra le macchine, tra la gente, in quel mondo che a “Benjamin e basta” sembrava precluso e gli dimostra che non ci si deve mai scoraggiare; “se i diversi – precisa Rampai Mohadi – sono destinati a restare soli, in realtà, anche gli altri, alti, grassi, magri, bianchi, lo sono, anche loro conoscono il sapore acre dello sgomento, ma hanno troppa paura per ammetterlo” e che, perciò, l’avventura esistenziale da lui finora vissuta in tutti i vari passaggi d’età è, sostanzialmente, “un simbolico buco della serratura da cui guardare ogni altra storia umana” (Paolo Guglielmoni, retetre.rtsi.ch, 2008) lo lascia tornare, poi, da solo nella casa in cui la terrorizzata Quinnie, con un’humanitas sincera e appassionata, lo aspetta per rimproverarlo energicamente, ma una scintilla è già scoccata in quell’animo in erba in cerca di una propria identità … C’è Tilda Swinton, nelle vesti di un’aristocratica donna inglese, ex nuotatrice bloccata in Russia per un incarico ricevuto dal marito come una spia del governo britannico, l’Elizabeth Abbott con cui, sebbene sposata, Benjamin, tra il 1932 al 1934, mentre con l’equipaggio del rimorchiatore sta lavorando nei mari sovietici, vive la “prima seria storia d’amore” e scopre i piaceri della vita; il luogo dell’incontro è, apparentemente, il “Winter Palace Hotel di Parigi”, ma, nella realtà, è il Palazzo d’Inverno di Montreal, scelto da scenografi e regista per l’atmosfera di un passato splendore romantico e malizioso che esso riproduce … C’è il vero padre di Ben, un ricco uomo d’affari e produttore di bottoni di New Orleans che, disperato per la morte di Mrs. Button, mentre la gente in piazza, euforica, inneggia alla firma del trattato di armistizio tra la Germania e gli Alleati e, con fuochi d’artificio, saluta la fine della Prima guerra mondiale, abbandona il figlio alla nascita “con soli diciotto pulciosi dollari” e, pur seguendolo da lontano, con varie soste fugaci davanti l’ospizio o nel bordello, non gli rivela mai il suo nome; anni dopo, sentendosi vicino alla morte, Thomas Button, si presenta e gli lascia la sua eredità; Benjamin lo porta nella casa estiva per fargli riprovare le emozioni di un tempo lontano quando, da ragazzo, amava svegliarsi prima di chiunque altro per “osservare l’inizio della nuova giornata”. Nonostante il dolore che deve aver provato per la rivelazione di essere stato da lui abbandonato, il “giovane-vecchio”, con un aria di innocenza disarmante, lo accontenta, il suo cuore gli ha perdonato le trasgressioni del passato, la rabbia e i rimpianti hanno ormai lasciato il posto a una tenerezza infinita … In lui, infatti, si sente l’infinita gratitudine verso quanti, in ogni caso, lo hanno aiutato a incastrare uno dei tanti tasselli attraverso cui a costruire il suo futuro … “dalla madre adottiva ha imparato a non cedere, dalla vita a rinascere e a non temere i cieli coperti di nuvole … ha capito che l’arcobaleno, comunque, tornerà a esplodere” (Simone Cristicchi, La cosa più bella del mondo, in Album di famiglia, 2013) e “niente, nemmeno la Seconda Guerra Mondiale o l’ondata libertaria degli anni sessanta, riesce a intaccare in maniera avvertibile la sua monoliticità” (www.ondacinema.it).
The curious case of Benjamin Button è un prodigio di contributi all’avanguardia e le continue metamorfosi di Benjamin Button ne sono prova assoluta. Secondo l’espressa volontà di Fincher e di Pitt, infatti, il protagonista DOVEVA essere interpretato, dalla culla alla tomba, da Brad, decisamente eccelso nella sua immedesimazione del personaggio con una costruzione fisica e mentale veramente al limite della perfezione, “attore di grande talento, intelligenza e sensibilità che sceglie i film basandosi sui copioni e non sui cachet, attore che, nonostante la sua indubbia prestanza fisica, non si è affatto preoccupato di salvaguardare la sua immagine glamour né di sacrificare la sua bellezza e, mettendo da parte ogni vanità, si è messo a completa disposizione del film, si è fatto usare, dedicando anche cinque ore al giorno per applicare il complesso make-up” (David Fincher, Intervista, 2008) e “diventare rugoso, senza capelli, gnomo” (Fincher, Intervista, 2008). In quasi tutta la prima ora, il protagonista, dal collo in su, è tutto generato non con protesi truccate, che non avrebbero retto soprattutto nei primissimi piani senza risultare un effetto speciale, o fotografie sovrapposte al corpo di un altro attore, ma con una testa totalmente costruita con il digital make up, scavando a fondo nel viso del divo per portarlo all’invecchiamento di circa 45 – 60 – 75 anni in più, mentre le diverse corporature appartengono, nelle varie fasi, a una serie di persone minute in carne e ossa scritturate dallo staff per dare credibilità al personaggio a ottant’anni, a settanta, a sessanta … nelle sue differenti costituzioni fisiche a mano a mano che la vita di lui progrediva e, più specificatamente, a Peter D. Badalamenti II dal 1928-1931, alto 1,35, Robert Towers dal 1932 al 1934, Tom Everett dal 1935 al 1937; questi ultimi, durante le riprese, recitavano indossando un cappuccio blu in testa e tale strategia ha facilitato, poi, in fase di post produzione, la sostituzione del volto digitalizzato di Brad Pitt creato in computer grafica attraverso la performance capture.
Per rappresentare un Benjamin “autentico”, il regista si è ispirato ai veri soggetti affetti dalla Sindrome di Hutchinson-Gilford e, quindi, sin dall’infante meccanico della prima apparizione con tutti i segni di un “pluriottantenne con un piede nella fossa” e gli acciacchi causati dall’età, è stato indispensabile catturarne idiosincrasie, piccoli tic, sottigliezze in modo che, sempre, camminando alla piena luce del giorno, di notte, a lume di candela, recitando un dialogo, correndo, sudando, facendo un bagno, piangendo, persino vomitando, appaia sullo schermo per quello che è; Brad, in sostanza, è davvero straordinario nell’interpretare il personaggio dall’ingenuità disarmante, dalla luce di pura innocenza nel volto avvizzito, “convincente anche quando il trucco e il corpo immiserito di un altro rischiano di cancellarne i carismi, almeno fino a quando non appare in tutto il suo splendore” (www.cinematografo.it) … Ed eccolo, per esempio, nel pieno della sua vitalità, che scorrazza per la città sulla Tiger T110 650 cc prima serie del ’54, scelta azzeccata perché la moto della Triumph simboleggia l’assoluta inossidabilità ai segni del tempo e, soprattutto, “la meravigliosa saggezza che possono avere gli anziani, uniti con il vigore della giovinezza” (www.blogtriumphchepassione.com). Essa è facilmente riconoscibile dal logo inserito in 4 profili cromati paralleli sul serbatoio, il cilindro in ghisa e la colorazione prima rossa e, in seguito, azzurro-grigio, nucleo, peraltro, della locandina inglese. Le scene in cui è possibile vedere la bella motocicletta sono tre, la prima racconta il ritorno a casa dell’amata donna, la seconda, appena dopo, sintetizza silenziosamente il momento di una felice passeggiata di Ben e Cate, la terza immortala la sera il giovane decide di sacrificarsi e lasciare tutto alla compagna, fuggendo con la sola Triumph. Un prosit particolarmente entusiasta va, dunque, alla strabiliante metamorfosi operata dal team della Digital Domain che, in sei anni, attraverso uno dei lavori più innovativi degli ultimi decenni, permette di assistere alle straordinarie performances del protagonista sviluppate senza farlo risultare snaturato nelle sue espressioni o nei suoi movimenti. Tranne per i 12, gli 8 e i 6 anni, in cui la scena è dominata, rispettivamente, da Spencer Daniels, Chandler Canterbury e Charles Henry Wyson, è sempre lui, Brad Pitt, anche quando gli somiglia veramente poco, basso, vecchio e decrepito, prima, bellissimo Adone, poi, dominato dalla paura di non essere all’altezza delle varie situazioni che gli si possano presentare e, prima fra tutte, quella dell’abbandono. La tecnologia all’avanguardia, in particolare, ha consentito a David Leo, con l’ausilio di Greg Cannom, Oscar per miglior trucco, ed Eric Barba con Edson Williams, Oscar per migliori effetti speciali, a seguito di un progetto che, dal 1994 al 1998, è passato per le mani di Ron Howard, Spike Jonze e Charlie Kaufman prima di approdare nelle sue, di compiere un’opera d’arte che ha richiesto un impegno di circa 325 riprese realizzate in centocinquanta giorni, duecentosessanta settimane complessive di lavorazione, due anni di postproduzione e una spesa di trenta milioni di dollari in effetti speciali, giganteschi interventi non solo nel tratto psico-fisico, ma anche negli stati d’animo, “da quelli della “giovane vecchiaia, in cui la curiosità per la vita è seguita dal desiderio dell’amore, alla precaria sicurezza, fino all’imbarazzo e alla confusione dell’adolescenza e del continuo rifiorire” (Un film che dipinge la vita nella sua essenza, filmup.leonardo.it, 02/6/2009) ed “è stato divertente manipolare a piacimento la sua testa, il suo volto, le sue espressioni” (David Fincher, Intervista, 2008).
“David è un perfezionista capace di fare 40 ciac solo per far aprire una porta, scendere degli scalini, spostare una panca, fermare un tram, controllare l’ombra proiettata su una parete … ma, alla fine, ciascuno, soddisfatto il proprio bisogno di recitare, può dire “Wow, ho capito!!!” (Cast, Interviste varie, 2009) … Nessuna scena è superflua, niente è noioso in questo diagramma esistenziale in cui Ben, “interprete spesso spaesato e attonito della realtà” (www.spietati.it, 15/02/2009), abbandona la sedia a rotelle, comincia a muovere i primi passi autonomamente, ci vede meglio, si guarda allo specchio, si stupisce della sua forma fisica sempre più smagliante, diventa un uomo sempre più affascinante mentre per tutti gli altri il tempus edax infierisce senza pietà.
Indice di questo impegno ad unguem è anche il forte segno stilistico rilevato attraverso la fotografia digitale di Claudio Miranda, che, “per catturare ogni singolo grammo di luce ed essere al 100 %” (NDA, 2009), si è servito dei metodi più sofisticati, provando sistemi molto innovativi in 4 K, D-20, cineprese multiple, sensori di varie dimensioni, per poi optare per la già sperimentata Viper, impiegando lampadine di vari voltaggi e seguendo tutti i movimenti del sole; tali tecniche, assecondando il desiderio di rendere “vera” ogni epoca attraversata, “gli hanno permesso di spaziare dalla luce calda a tungsteno indispensabile per tingere gli anni Venti alle luci al neon per restituire la luce della contemporaneità, dai bagliori notturni del mare in tempesta ai tagli di luce diurna nelle strade e nelle case, ai controluce mattutini rosa e rossi sull’acqua, all’incombente atmosfera pre-uragano Katrina” (NDA, 2009). L’artista, Nomination Oscar 2009 Miglior fotografia, oltre a ciò, ha utilizzato immagini sbiadite con colori legati alla terra attraverso cui concretizzare il senso del misterioso divenire di Pitt e segnare sapientemente il passaggio degli anni, in una storia che si articola lungo l’intero arco del XX secolo. Ogni fotogramma della ricca e complessa pellicola di Fincher, inoltre, è sorretto dalle melodie avvolgenti di ampio respiro realizzate da Alexandre Desplat; il compositore, nomination Oscar 2009 miglior colonna sonora, consapevole dell’impatto che la musica può avere sulla tessitura di un film, pur mantenendo un tono molto raccolto e delicato, riesce a dar vita, in uno scambio sinergico con il regista e con “idee lampanti afferrate al volo e poi analizzate a fondo” (Alexandre Desplat, Intervista, 2008), a una partitura molto ricca e straordinariamente evocativa.
Le armonie, insomma, “costruiscono un puzzle delicato e complesso in un’interazione continua che intensifichi l’intimità tra personaggi e situazioni senza mai sommergere” (Alexandre Desplat, Intervista, 2008), stenografi le forti emozioni più efficacemente di quanto le parole potrebbero fare e assuma funzioni narrative validissime capaci di attanagliarsi nella memoria dello spettatore. La stessa attenzione e la capacità di cogliere ogni piccola sfumatura anche attraverso la percezione visiva sono state per Fincher le vie più efficace per la scelta degli ambienti e, in particolare, del gerontocomio che, individuato dopo tante ricerche e tante prove, al 2707 di Coliseun a New Orleans, è diventato un personaggio caratterizzante in cui “la morte è un’ospite abituale e il conseguente silenzio spesso avvolge i ricoverati”; Fincher lo ha individuato immediatamente come location principale perché esso rispettava, anche con le case tutte intorno, il sapore dell’epoca, era adeguato come stile, i mobili erano coperti da lenzuoli e non era abitato da nessuno perché la proprietaria l’aveva abbandonato per le minacce continue rappresentate da Katrina … Un ambiente vivo, triste o allegro a seconda degli eventi che vi si registravano, perfetto “per ogni nuovo mattino luminoso, per un riposo e per un riparo di notte”…
Legittimi appaiono, dunque, i 10,90 euro spesi per il DVD attraverso cui David Leo, nomination Oscar 2009 miglior regia, servendosi della microstoria di Benjamin Button, porta alla ribalta la progeria, una malattia genetica, che, prolificata dalla mutazione del gene LMNA, non lascia scampo, anche se la familiarità non è debitamente comprovata. Il protagonista è afflitto dalla sindrome di Hutchinson-Gilford, una sorta di senilità precoce descritta per la prima volta da Jonathan Hutchinson nel 1886 e analizzata da Hastings Gilford nel 1904, nella forma più scioccante, quella infantile, che rientra nella casistica di un bambino su circa otto milioni di nati; ne accusa tutti i sintomi, la macrocefalia, l’alopecia, la sordità, l’osteoporosi, l’eccessiva magrezza, la vista annebbiata dalla cataratta, la debolezza articolare, la sanità della mente che mantiene la reale età anagrafica, l’insufficiente crescita di statura che rasenta il nanismo, la mancanza del grasso sottocutaneo e il conseguente avvizzimento della cute.
La domanda più frequente, che stimola alla ricerca di referti medici che giustifichino la veridicità dei tanti stati a cui è egli sottoposto, è quella di chiedersi se la storia narrata sia frutto di una sorprendente fantasia o si basi su delicatissime patologie cliniche a cui la scienza non è ancora riuscita a dare risposte concrete. L’arco vitale del personaggio principale, appunto, invece di andare incontro alla solita morte dai tredici anni ai 20 anni a causa di cardiopatia, infarto o ictus, come previsto dal protocollo di tale malattia di cui si è scoperta la causa ma ancora non si conosce la cura, attraversa tutto il 1900 con un miracoloso e graduale ringiovanimento. Se nel film, però, tutto ha una luce risolutiva, cosa si registra nella tangibile quotidianità? L’interrogativo è motivato perché, nell’intrecciarsi di fantasia e realtà, con note ricchissime in cui si coglie una continua crescita umana e sociale, più attuale che mai appare, oggi, l’atteggiamento di Jason Flemyng il quale, pentito del raptus di puro egoismo, tenta di recuperare il tempo perduto … Fincher, infatti, dipingendo la complessa vicenda di un uomo nato anziano e morto neonato, fa puntare lo sguardo su quanti sono afflitti da tali sintomatologie e, nella fattispecie, sull’eclatante congiuntura di Micheal e Matthew Clark, la cui vita, arrivati a quasi quarant’anni e nel pieno inserimento nel mondo del lavoro, l’uno artigliere della Royal Air e l’altro in una fabbrica di patatine, ha invertito la rotta. Ai due fratelli britannici, rispettivamente di 42 e 39 anni, “è stata diagnosticata una grave forma di leucodistrofia metacromatica terminale che impedisce la crescita della guaina mielinica, la pellicola di protezione delle fibre nervose nel cervello, ed essi, pertanto, sono soggetti a una condizione neurologica che provoca una progressiva perdita di parola e di movimento” (Lynda Carthy, Intervista al dailymail.co.uk, 4 Maggio 2012).
Intrappolati in corpi adulti, questi “ragazzi” , dal 2010 circa, stanno regredendo a uno stato infantile al punto da avere un’età mentale simile a quella di bambini piccoli che necessitano di cure per tutto il giorno, manifestano avvisaglie che disorientano eminenti specialisti di tutto il mondo volati nel Regno Unito per discutere il caso, “passano le loro giornate a ridacchiare maliziosamente, fare sberleffi, guardare film di Harry Potter o cartoni Disney e leggere fumetti, adorano i giochi da tavolo, si comportano da lunatici adolescenti svogliati, capricciosi e indisciplinati” (Lynda Carthy, Ibidem) … anche il loro l’orologio, come quello di Jacob Wood, sta girando all’indietro … Che succederà alla morte di papà Anthony Clark e mamma Christine, con i quali sono tornati a vivere? Chi se ne prenderà cura? Vitale, appunto, si ritiene l’estrema dedizione dei genitori e tale consapevolezza fa apprezzare il desiderio di Thomas Button di condividere con il figlio il piacere di ammirare l’alba dalla riva del lago Pontchartrain; l’episodio del film del 2008, reso più coinvolgente dalle note di The sunrise on Lake Pont Chartrain, si precisa, da un lato, come chiara metafora di chi vuole ricominciare da zero per offrire al giovane quello che gli aveva ingiustamente strappato, dall’altro, in sottofondo, fa bombardare nelle orecchie l’eco degli appelli della famiglia di Micheal e Matthew con richieste di sovvenzioni allo Stato …
Dio, talvolta, commette degli errori e dona la vita anche a uomini poco fortunati, tuttavia essi, proprio perché hanno ricevuto il soffio vitale, devono essere rispettati nella loro diversità, aiutati e, soprattutto, accettati senza pregiudizi. Il mondo, in fondo, è bello perché è vario ed è grande perché deve esserci spazio per tutti” (Francis Scott Fitzgerald, NDA, 1922). L’uomo-Benjamin, in questo modo, fa vibrare l’animo dello spettatore implicitamente affermando più volte che “i propri sogni devono sempre volare alto” (Mi chiamo Sam Jessie Nelson, 2001) e che ”non esistono barriere se non le si vuole vedere”, divenendo fonte di ispirazione e forza interiore per chi lo incontra, dando modo proprio agli altri di superarsi, di sentirsi liberi e appagati. E’, forse, questo approccio propositivo che, nel 2009, ha spinto la critica a riconoscere al film 3 Oscar e 13 Nominations?

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Matilde Perriera